Ambiente

Artico, in 7000 anni mai così caldo come oggi. A testimoniarlo solo i larici siberiani

L’Artico è la regione del Pianeta che negli ultimi decenni si sta riscaldando più rapidamente. Secondo le stime più recenti, la temperatura starebbe incrementando a una velocità quadrupla rispetto alle latitudini inferiori. Un fenomeno sintetizzato dai climatologi come “amplificazione artica”. Ma come facciamo a sapere che simili situazioni non si siano verificate anche in un lontano passato? A rispondere a una domanda classicamente avanzata dai negazionisti del cambiamento climatico arrivano i larici della Siberia.

Uno studio di recente pubblicazione su Nature (“Current Siberian heating is unprecedented during the past seven millennia”) dimostra, mediante analisi degli anelli di accrescimento degli alberi della remota penisola siberiana di Yamal (dalla lingua indigena Nenets, “la fine della terra”), che in 7600 anni le estati nell’Artico non siano mai state calde quanto nei tempi moderni. Come riportato nel paper, lo studio, realizzato in collaborazione tra enti di ricerca svizzeri, britannici e russi, dimostra “che il recente riscaldamento di natura antropogenica ha interrotto un trend di raffreddamento durato millenni.”

Clima artico del passato, quanto ne sappiamo

Il rapido riscaldamento dell’Artico sta portando a una serie di conseguenze catastrofiche: aumento della perdita di ghiaccio in Groenlandia, estensione record (in negativo) del ghiaccio marino artico, disgelo del permafrost e incendi senza precedenti in tutta la Siberia. Fenomeni le cui conseguenze non restano contenute entro i confini delle regioni polari, ma interessano l’intero globo. La Siberia è tra le regioni artiche in cui il surriscaldamento appare più forte. Negli ultimi anni le ondate di calore hanno raggiunto livelli inquietanti, in particolare nel 2020, quando si sono toccati i 38°C nel Circolo Polare Artico.

Sul passato climatico della Siberia, dagli inizi dell’Olocene (convenzionalmente circa 11 700 anni fa) ad oggi, non sappiamo molto. La paleoclimatologia si basa infatti su archivi paleoclimatici, quali sedimenti, rocce, carote di ghiaccio, anelli di  accrescimento degli alberi, contenenti delle caratteristiche chimico-fisiche e biologiche (indicatori climatici o proxy), che variano al variare delle condizioni climatiche presenti al momento della loro formazione. Tali condizioni vengono dunque registrate nell’archivio e conservate nel tempo. Relativamente alle aree artiche i paleoclimatologi dispongono di archivi naturali in gran parte originari del Nord America, Scandinavia, Groenlandia. L’Artico siberiano rimane criticamente sottorappresentato.

Archivi che mostrano dei limiti: nella maggioranza dei casi si tratta di raccolte di pollini o sedimenti lacustri, in grado di fornire informazioni sull’andamento del clima con una scarsa risoluzione temporale. Possono ovvero essere d’aiuto nel ricostruire le variazioni climatiche su un periodo superiore ai 2000 anni, ma risultano inutili se l’intento è analizzare delle variazioni su un periodo inferiore ai 300 anni. Molto spesso inoltre è possibile ricostruire gli andamenti climatici soltanto fino a metà del XX secolo, perdendo dunque la fetta di tempo più critica, gli ultimi decenni in cui il riscaldamento nell’Artico ha subito una sensibile accelerazione.

Lo studio effettuato sulla penisola di Yamal cerca di colmare un gap, analizzando gli anelli di accrescimento annuale di alberi di larice siberiano (Larix sibirica), allo scopo di ricostruire 7638 anni (dal 5618 a.C. al 2019 d.C.) di variabilità della temperatura estiva (giugno-luglio) dell’Artico siberiano, su scale temporali da interannuali a secolari.

Cosa dicono gli alberi siberiani

I ricercatori hanno analizzato nel dettaglio 186 carote estratte da alberi viventi e 1425 sezioni di tronchi subfossili appartenenti alla medesima specie, come premesso il larice siberiano. I tronchi subfossili sono tronchi appartenenti ad antiche foreste – un tempo molto più estese delle odierne, concentrate nella parte meridionale della penisola – conservatisi nel permafrost e riemersi a seguito di erosione dei sedimenti ad opera dei fiumi. Per raccogliere un numero sufficiente di campioni sono state necessarie 20 spedizioni condotte in 40 anni.

Su ampia scala temporale, le analisi condotte su carote e sezioni di tronchi antichi hanno mostrato una chiara tendenza millenaria al raffreddamento della penisola di Yamal, bruscamente interrotta dal pronunciato riscaldamento dell’era industriale (1850–2019), senza alcun parallelo per finestre temporali comparabili (cioè 170 anni) nel corso dell’Olocene. Anche per finestre temporali più brevi (tra 37 e 170 anni fino al 2019), le temperature medie relative all’era industriale rappresentano valori che non trovano paragone in altri periodi dell’Olocene.

L’incremento delle temperature dell’ultimo secolo, chiariscono i ricercatori, non è imputabile a una variabilità naturale. La temperatura media ricostruita per il periodo 1920-2019 è pari a 13,47°C, con un tempo di ritorno stimato di oltre 4850 anni. “Il tempo di ritorno stimato per la temperatura media dell’aria 1920–2019 suggerisce che il riscaldamento avvenuto negli ultimi 100 anni sarebbe stato virtualmente impossibile in qualsiasi altro momento degli ultimi sette millenni e in assenza del cambiamento climatico.”

Uno sguardo al futuro

“Sebbene la nostra analisi non includa proiezioni nel futuro – concludono gli esperti  – , non si può escludere che il rapido riscaldamento che si osserva nella nostra ricostruzione possa determinare una nuova condizione climatica in cui le ondate di caldo così come lo scioglimento dei corpi di permafrost e il verificarsi di incendi possano diventare una routine. Date le conseguenze dannose di tali dinamiche climatiche, i nostri risultati indicano anche seri rischi di impatti negativi simultanei su vaste aree se non vengono adottate strategie di adattamento.”

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