Meridiani Montagne

Donne e alpinismo, a quando un CAI “altro”?

Se la storia fosse scritta dalle donne, nella sala da pranzo di un famoso rifugio ai piedi del Monviso non campeggerebbe il ritratto da severo statista di Quintino Sella, ma quello, sicuramente più materno, di Alessandra Boarelli nata Re, signora torinese sposata a un nobile di Verzuolo, che per un soffio non divenne la prima italiana sulla cima del Re di Pietra. Accadeva nell’agosto 1863: Alessandra aveva allora 25 anni e due figli, quando spinta all’avventura (come tanti altri) dalla pubblicazione delle relazioni di Mathews e Tuckett, gli inglesi che avevano compiuto la prima e seconda ascensione al Monviso nei due anni precedenti, organizzò una sua spedizione. Per sapere tutto, di questa donna straordinaria e delle sue imprese, in mancanza di un ritratto ufficiale ci affidiamo oggi alla bella biografia scritta da Linda Cottino (Nina. Devi tornare sul Viso, Fusta Editore). Qui ricordiamo in breve che la spedizione causa nebbia fallì, e una settimana più tardi era Quintino Sella ad aggiudicarsi la prima italiana sulla montagna simbolo del Piemonte. Alessandra Boarelli si sarebbe presa la rivincita l’anno successivo, 1864, firmando comunque la prima femminile. Ma intanto il ministro delle finanze Sella aveva già fondato, in seguito alla sua ascensione, il Club alpino italiano; bontà sua, riconoscendo il valore della rivale, propose di ribattezzare il piano delle Forciolline, da cui partivano allora le spedizioni, Maita Boarelli. Nel suo club, però, per le donne non c’era posto.

Donne e CAI

Basta rileggere il passo della relazione Una salita al Monviso, in cui Sella proponeva la fondazione del sodalizio, per rendersi conto del clima culturale dell’epoca: “Ei mi pare che non ci debba voler molto per indurre i nostri giovani, che seppero d’un tratto passare dalle mollezze del lusso alla vita del soldato, a dar piglio al bastone ferrato e a procurarsi la maschia soddisfazione di solcare in varie direzioni e sino alle più alte cime queste meravigliose Alpi, che ogni popolo ci invidia”. La locuzione maschia soddisfazione e il parallelo tra le durezze della vita dell’alpinista e quella del soldato non lasciano dubbi su chi dovesse accogliere il Cai. Al suo fondatore Quintino Sella fu dunque dedicato il rifugio (insieme a tre o quattro altri sparsi per le Alpi), mentre alla Boarelli rimase il premio di consolazione del bivacco alle Forciolline. Ma accompagnato da un ulteriore scorno, sotto forma di articolo apparso su La sentinella delle Alpi del 25 agosto 1864: “Ora che è provato che perfin le donne raggiunsero quella punta culminante, che fino all’anno scorso si credette inaccessibile, chi sarà quel touriste che si perderà di coraggio all’atto della prova?”. Insomma, se perfino una donna c’era riuscita, quel Monviso doveva essere ben poca cosa

Per altri quarant’anni la rappresentanza femminile nel club fu pari a zero. E nell’ambiente alpinistico in genere le donne erano a malapena tollerate: come si legge in un manuale d’alpinismo del 1898, “non vogliam dire che la donna debba seguire punto per punto le orme maschili e gettarsi inconsideratamente nelle imprese superiori alle sue esigue forze fisiche e morali. Si contenti la donna, di salite di ordine più modesto…”. In montagna sì, ma un passo indietro per favore. Nel libro epistolare che ancora Linda Cottino ha scritto a quattro mani con Silvia Metzeltin, L’alpinismo è tutto un mondo, si ricordano le tante discriminazioni subite da alpiniste di ogni epoca: medaglie negate, esclusioni da gare come il Mezzalama e la Marcialonga, ascensioni messe in dubbio dagli stessi testimoni diretti. Mentre bisogna aspettare fino al 1977 per vedere le prime donne (Adriana Valdo e la stessa Metzeltin) ammesse tra gli accademici del Cai.

Oggi le donne rappresentano il 35 per cento del Cai. Salgono il 9b come i colleghi maschi. Collezionano Ottomila come la nostra Nives Meroi. Un mondo migliore. Ma è davvero così?

La cronaca racconta una realtà diversa. E torniamo a Cottino e Metzeltin. Le loro firme appaiono non per caso in una lettera, insieme ad altre trenta di scrittori, intellettuali e alpinisti, in cui si chiedono le dimissioni al neoeletto presidente generale del Cai (vedi l’articolo su La Stampa, 15 giugno 2022), a causa di accuse di molestie sessuali “incompatibili con la carica della presidenza”. I fatti, tutti da accertare, sarebbero accaduti all’interno dell’associazione l’anno precedente.

Al di là dei suoi esiti giudiziari, ancora da scrivere, la vicenda ha scoperchiato un intero vaso di pandora di sospetti, omertà, intimidazioni, all’interno del Cai: curiosando in rete, si trova facilmente la registrazione della proclamazione del nuovo presidente, con le dimissioni contestuali di due dei tre vicepresidenti generali (tra cui l’unica donna, prontamente sostituita con un’altra vicepresidente donna) e i clamori da stadio dell’assemblea.

Ho omesso, come notate, i nomi dei protagonisti: sono pubblici, li trovate sulle pagine dei giornali. Qui non voglio entrare nel merito della questione (non sono iscritto all’associazione e non ho alcun titolo per giudicare), ma solo farmi qualche domanda, così, da giornalista. Qual è il ruolo della donna nel Cai? Quante donne sono a capo di sezioni e commissioni? Come sono considerate le donne che vogliano seguire “punto per punto le orme maschili”?

E qui si apre un’ulteriore questione. Davvero la donna deve prendere pedissequamente il posto dell’uomo? È solo un problema di sostituzione di genere? O non è possibile pensare a qualcosa di completamente diverso? Siccome non sono donna, non sono titolato nemmeno a parlare di liberazione o rivendicazioni femminili. Né ad auspicare, come auspico, una donna alla prossima presidenza (non solo quella del Cai, a tutte le presidenze del mondo). Quindi lascio le ultime righe a Carla Lonzi, critica d’arte, filosofa e femminista, che nel 1970 aveva redatto il Manifesto di Rivolta Femminile:

  • La donna non va definita in rapporto all’uomo.
  • L’uomo non è il modello a cui adeguare il processo della scoperta di sé da parte della donna.
  • La donna è l’altro rispetto all’uomo. L’uomo è l’altro rispetto alla donna. L’uguaglianza è un tentativo ideologico per asservire la donna a più alti livelli.
  • Identificare la donna all’uomo significa annullare l’ultima via di liberazione. Liberarsi per la donna non vuol dire accettare la stessa vita dell’uomo perché è invivibile, ma esprimere il suo senso dell’esistenza”.

Questo Manifesto, oltre a essere uno degli scritti più illuminanti della controcultura italiana, è stato anche il più disatteso, incompreso da una buona parte dello stesso movimento femminista. Ma la domanda che ci stimola, oggi, nel nostro piccolo mondo alpinistico, merita una risposta: a quando un Cai “altro”?

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