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La eccezionale resistenza al freddo dei Fuegini, antichi abitanti della Terra del Fuoco

Nel 1831 un giovane Charles Darwin intraprendeva a bordo del Beagle un lungo viaggio tra America, Oceania e Africa, al ritorno del quale avrebbe iniziato a gettare le basi della sua teoria dell’evoluzione. La missione esplorativa guidata dal capitano di marina Robert FitzRoy accompagnò il naturalista poco più che ventenne anche alla scoperta della Terra del Fuoco, il vasto arcipelago situato all’estremo meridionale del continente americano e della Patagonia argentina, così ribattezzata dal primo esploratore europeo giuntovi nel XVI secolo, Ferdinando Magellano, con riferimento ai fuochi accesi dagli indigeni che vide avvicinandosi alle coste.

Come avrebbe successivamente raccontato nella sua opera del 1871 “The Descent of a Man”, Darwin rimase particolarmente colpito dalla straordinaria resistenza al freddo degli abitanti di quella terra lontana, che si aggiravano se non nudi, decisamente poco coperti da vestiario che potesse fungere da protezione fisica contro il freddo patagonico.

I Fuegini erano soliti portare al massimo un mantello di pelliccia gettato sulle spalle. Non è facile immaginare lo stupore degli Europei infreddoliti a bordo del Beagle, e probabilmente al pari, gli esploratori che li precedettero.

Sono trascorsi quasi 2 secoli dal viaggio di Charles Darwin in Patagonia e finalmente il segreto di quella insolita resistenza al freddo delle antiche popolazioni della Terra del Fuoco, decimati da malattie e portati al limite dell’estinzione già a inizio Novecento, potrebbe essere stato svelato.

Il merito va a una ricerca internazionale coordinata dai Dipartimenti di Medicina sperimentale, Biologia ambientale e Medicina molecolare della Sapienza, i cui risultati sono stati pubblicati di recente sulla rivista Scientific Reports, in un paper dal titolo “Bone density and genomic analysis unfold cold adaptation mechanisms of ancient inhabitants of Tierra del Fuego”.

Lo studio è stato condotto in collaborazione con altri centri internazionali come il Centre for Neuropsychiatric Genetics and Genomics di Cardiff, l’Unità di Medicina Nucleare dell’IRCCS Regina Elena di Roma, il Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze, l’Unità di Endocrinologia e Diabete dell’Università Campus Biomedico di Roma e il Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università Politecnica delle Marche di Ancona.

Chi erano i Fuegini?

Prima di comprendere il segreto di queste popolazioni, apriamo una parentesi per capire chi fossero i Fuegini. Come dettagliato dai ricercatori della Sapienza, “queste popolazioni comprendevano sia i gruppi arcaici del sud e dell’ovest, cioè Halakwùlup (Alakaluf) e Yámana, sia gli Ona, stanziati a est, affini ai Patagoni”.

Due etnie dunque che, oggi estinte, “si differenziavano antropologicamente per alcuni caratteri: più alti, con corpo robusto, testa mesomorfa, faccia affilata e molto sviluppata in altezza, gli Ona; statura piccola, cranio lungo con forti arcate sovraorbitali, faccia larga, pelle bruno-rossastra, gli altri.”

Caratteristica comune: la estrema resistenza al freddo. “Queste popolazioni avevano uno straordinario adattamento al clima rigido della zona da loro abitata; indossavano, infatti, un abbigliamento ridottissimo anche durante l’inverno.”

“I Fuegini vivevano di pesca, di raccolta di molluschi e di caccia e usavano come abitazione semplici ripari di frasche. Le strutture sociali erano semplici: mancavano capi ed entità totemiche; la famiglia, monogama, era patrilineare, sebbene la donna godesse di una certa libertà; fondamentali i riti (officiati da una sorta di stregone privo di poteri) che tramandavano le consuetudini sociali, morali e religiose; entrambe le etnie credevano in un essere supremo. Queste etnie furono decimate dall’incontro con gli Europei, dalle malattie, dall’impoverimento dell’habitat dovuto all’introduzione degli ovini, dalla concentrazione in nuclei abitativi stabili (le cosiddette reducciones missionarie). Le lingue parlate dai Fuegini appartenevano al gruppo dell’Araucano.”

Il segreto della resistenza al freddo

Andando al dunque, cosa ha scoperto il team internazionale? Analizzando dei reperti scheletrici dei Fuegini conservati presso il Museo di Antropologia Giuseppe Sergi dell’Ateneo romano è stata rilevata una inattesa densità ossea. In climi freddi come quello della Terra del Fuoco gli esperti attendevano di trovarsi di fronte a casi di fragilità ossea. I valori di densità rilevata sono similari a quelli di coloro che, come noi, vivono in un clima temperato. In sintesi è come se le loro ossa fossero state protette dal freddo da qualcosa. Ma cosa?

“Grazie alla collaborazione con esperti genetisti e bioinformatici, interrogando le banche dati che raccolgono informazioni sul patrimonio genetico di molte popolazioni, i ricercatori hanno individuato due piccole varianti genetiche mai descritte prima, presenti solo nei Fuegini e non in altri popoli esposti anch’essi al freddo estremo – si legge nel comunicato ufficiale d’Ateneo – . Queste varianti sono collegate a uno dei meccanismi più importanti di adattamento metabolico al freddo, ovvero allo sviluppo e all’attivazione del grasso bruno“. 

Il grasso bruno, che siamo abituati ad associare agli animali che vanno in letargo, ma in realtà compare in piccole quantità anche nel nostro corpo, ha la funzione principale di fornire calore a basse temperature, bruciando energia. Inoltre ha un effetto protettivo sullo scheletro.

La presenza  di una correlazione tra grasso bruno e ossa trova prova ad esempio nel fatto che, nel nostro corpo, la quantità di grasso bruno sia proporzionale alla densità ossea. E studi scientifici effettuati sui topi hanno dimostrato che privando le cavie del grasso bruno, si vada incontro a perdita di massa ossea.

Varianti uniche al mondo

Se queste varianti genetiche non erano mai state descritte prima d’ora, come si è potuto comprendere quale fosse il loro effetto sul corpo dei Fuegini? Come spiegato dal coordinatore della ricerca Lucio Gnessi della Sapienza, “oggi è possibile predire gli effetti potenziali di varianti genetiche molto piccole o anche non codificanti, ricorrendo alla cosiddetta analisi in silico che sfrutta simulazioni matematiche tramite l’utilizzo di software sofisticati e algoritmi complessi”.

Sono state le analisi in silico a mostrare dunque l’alta probabilità di correlazione tra le mutazioni geniche identificate nel genoma del Fuegini e il metabolismo del grasso bruno.

Una alimentazione ricca di grassi animali

Il team di ricerca della Sapienza è impegnato da anni nello studio dei Fuegini e della loro estrema resistenza al freddo. Nel 2017, in un articolo dal titolo “Dietary resilience among hunter-gatherers of Tierra del Fuego: Isotopic evidence in a diachronic perspective” pubblicato sulla rivista Plos One, veniva posta attenzione sull’alimentazione di questi antichi cacciatori e pescatori, evidenziando che i primi abitanti della Terra del Fuoco si nutrissero di otarie e uccelli marini, cibo molto utile a contrastare la rigidità del clima.

Anche in questo caso la risposta è giunta dalle ossa. I ricercatori hanno infatti misurato il rapporto isotopico di carbonio e azoto nel collagene delle ossa, un parametro che ha consentito di ricostruire la dieta seguita dai Fuegini nel corso dell’ultimo millennio.

“Le serie scheletriche hanno offerto la possibilità di studiare il variare della dieta di queste popolazioni, successivamente all’arrivo degli esploratori Europei e Nord Americani, che giunsero in queste regioni per sfruttare i pinnipedi (in questa zona soprattutto otarie) – spiega l’Ateneo in una nota – , sottraendo così la fonte principale di cibo per le popolazioni indigene. I risultati della ricerca mostrano una sorprendente omogeneità nel regime alimentare dei Fuegini nelle fasi precedenti al contatto con gli Europei e successivamente al loro arrivo. Tale omogeneità è stata interpretata come segnale di adattamento delle popolazioni locali, che modificarono la propria dieta in modo da mantenere invariato il carico proteico sostituendo i pinnipedi, oramai depredati, con altre risorse (prevalentemente uccelli marini).”

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4 Commenti

  1. Potrebbe essere una buona solizione… trovare una dieta che trasforma il grasso bianco in grasso bruno e cosi’ risparmiare sul riscaldamento..al posto di problematici cappotti thermoisolanti di plastica.Per intanto una buona idea e’ stare vestiti anche all’interno degli edifici e portare la temperatura massimo 18 gradi , anche meno.In montagna lo facevano da centinaia di anni…( vestiario, stanze basse, e rivestite dilegno, finestre piccole con vetri doppi e nessuna schizzinosita’ per il lardo..patate ecc)Poi e’arrivato il combustibile facile, regolato elettronicamente…e il modo di vestirsi glamour diffuso dalbmarketing con abolizione di maglie e mutandoni e’ stato imitato, come pure la dieta light.

  2. Ecco spiegatomi perché d’inverno quando scalavo preferivo avere da mangiare salame, pancetta, grana e altre golosità del genere. L’avevo sempre attribuito ad un mio bisogno psicologico. Però dovevo essere in ottima forma, altrimenti non li digerivo 🙂
    Ricordo poi Renato che se ne stava in giro per tanti giorni con mezze forme di grana e con grossi pezzi di pancetta.

  3. A causa delle basse temperature il fuoco doveva sempre rimanere acceso. Perfino quando andavano a pescare/cacciare lo portavano nella barca e lo alimentavano.

  4. Terre fantastiche che presto spero di rivedere….al di là dei sogni personali e dei voli pindarici di Albert non passi inosservato che l’energia era praticamente ricavata tutta dai grassi e non dagli zuccheri come nell’alimentazione moderna…che sia ora di rivedere qualcosa anche in questo campo nelle tavole della socità moderna??

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