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Atacama, il cimitero tossico dei vestiti usati

Gonne in lamè, felpe dai colori natalizi, pantaloncini, magliette, doposci e stivali da pioggia. Ma anche un bandiera americana e scarponi da montagna. Sono solo alcuni degli oggetti che emergono dalla discarica abusiva di Alto Hospicio, in Cile, tra le montagne del deserto di Atacama.

Succede qualcosa di molto particolare in quest’alta terra arida e fredda. Ogni anno arrivano circa 59mila tonnellate di vestiti “occidentali”. Ci troviamo in un’area commerciale con dazi doganali preferenziali, per questo usata come porta di accesso a container di vestiti provenienti da Nord America, Europa e Asia. Dopo essere entrati nel Paese i container vengono aperti e gli abiti smistati, pronti a finire sul mercato dell’usato cileno o di altre nazioni dell’America Latina. Un mercato, quello dell’usato, su cui il Cile ha sviluppato un proficua economia negli ultimi 40 anni. Un commercio che garantisce stipendi e vite dignitose a numerose famiglie. A fianco del benessere si è però venuto a creare un problema, acuitosi negli ultimi anni. La quantità di indumenti che giungono nel Paese è troppo alta. La crescente quantità di abbigliamento a basso costo prodotta in Asia per marchi capaci di offrire una cinquantina di nuove collezioni ogni anno sta congestionando la filiera, tanto che gli “scarti” si accumulano ormai in modo esponenziale tra le montagne di Atacama. A rivelarlo, oltre alle immagini, la testimonianza rilasciata da Alex Carreño all’agenzia francese AFP. Carreño, ex operaio della zona di importazione fluviale, spiega infatti come “ciò che non viene venduto a Santiago o che non viene contrabbandato in altri Paesi come Bolivia, Perù e Paraguay rimane qui”. Parliamo di circa 39mila tonnellate di vestiti che vengono “stoccati” in discariche abusive eliminando così gli alti costi di smaltimento.

La discarica è oggi un piccolo villaggio, popolato di persone che rovistano e frugano su queste masse sferzante dal vento di montagna in cerca di un paio di pantaloni, o di un abito elegante, da rivendere in cambio di qualche soldo. Per il resto è solo spazzatura, tossica per l’ambiente. “Il problema è che questi vestiti non sono biodegradabili e contengono sostanze chimiche, quindi non sono accettati nelle discariche municipali” spiega ad AFP Franklin Zepeda, titolare di una società di riciclaggio che sta cercando di fronteggiare il problema. Un problema che non è solo visivo, ma anche pratico. Per l’alto rischio incendio di queste masse molti vestiti vengono sotterrati, prevenendo così la diffusione nell’atmosfera di sostanze tossiche e cancerogene se respirate. Ma anche questa non è una soluzione perché, degradandosi, i vestiti rilasciano sostanze chimiche che vanno a inquinare le falde freatiche. Grazie alla sua azienda nata nel 2018 Zepeda, nato e cresciuto a pochi passi dalla discarica di Alto Hospicio, tratta circa 40 tonnellate di vestiti al mese. Gli abiti vengono separati per materiale, poi riciclato secondo le possibilità. Quelli sintetici e in poliestere diventano, per esempio, pannelli isolanti per gli edifici. La sua è una piccola goccia in questo oceano di indumenti dismessi, ma è simbolo di come vivendo in prima persona il problema si venga spronati a diventare parte della soluzione.

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