Film

Il Buco e il premio speciale alla mostra di Venezia. Intervista al regista Michelangelo Frammartino

Il settembre del 2021 entrerà nella storia della speleologia italiana. Il merito è del regista Michelangelo Frammartino e del suo team, e naturalmente dell’Abisso del Bifurto, una cavità carsica del massiccio del Pollino, in Calabria, che raggiunge i 683 metri di profondità. Una decina di giorni fa Il Buco, il film che Frammartino ha dedicato alla prima esplorazione speleologica del Bifurto, ha ottenuto il Premio speciale della Giuria della 78ª Mostra internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Da giovedì 23 settembre, verrà proiettato nei cinema di tutta Italia.

Il film, prodotto da Doppio Nodo Double Bind e Rai Cinema, dura 93 minuti e ha avuto come coproduttori, tra gli altri, il Ministero della Cultura italiano, la Calabria Film Commission, Arté, Zdf ed Eurimages. La distribuzione italiana è di Lucky Red, quella internazionale di Coproduction Office. La sceneggiatura è di Giovanna Giuliani e Michelangelo Frammartino, la fotografia di Renato Berta, il suono di Simone Paolo Olivero, il montaggio di Benni Atria. Tra gli attori, tutti non professionisti, sono dodici giovani speleologi e Nicola Lanza, l’anziano pastore Zi’ Nicola, che ci ha lasciato nella scorsa estate. 

Scusi Frammartino, ma lei è milanese o calabrese? 

“Sono nato e vivo a Milano, ma i miei genitori erano di Caulonia, un paese di collina, affacciato sullo Jonio, ai piedi delle Serre. Ogni estate andavo lì, e ho scoperto la magia della Calabria”. 

Nel film lei racconta la storia dell’esplorazione dell’Abisso del Bifurto nel 1961, da parte di una squadra speleologi piemontesi. Chi gliel’ha raccontata?

“Nel 2009, mentre stavo girando Le quattro volte, il mio primo lungometraggio, Antonio La Rocca, sindaco di Alessandria del Carretto e speleologo, mi ha parlato del Bifurto e della sua esplorazione. Qualche anno dopo, durante un campo speleologico sul Pollino, ho incontrato Giulio Gècchele, che aveva partecipato all’esplorazione del 1961 e ce l’ha raccontata con passione”.  

Quella storia era ancora viva anche tra la gente del posto?

“Sì. Molti paesani, che all’epoca erano bambini e ora sono intorno ai settant’anni, raccontavano di quella strana gente arrivata dal Nord”. 

Non era un periodo facile, in quegli anni la Calabria si è svuotata perché la gente emigrava a Milano e a Torino. Secondo lei nel 1961 gli speleologi e la gente del posto si sono capiti?

“Ne sono certo. I piemontesi ammiravano la nobiltà dei pastori del Pollino. I paesani ammiravano il coraggio e la pazzia di quegli strani ragazzi. E poi, per campanilismo, hanno sperato che il Bifurto fosse la grotta più profonda del mondo”. 

Come fa un non speleologo a girare un film sulle grotte?

“Prima di tutto imparando ad andarci. Insieme a Giovanna Giuliani, sceneggiatrice e coautrice del film, siamo andati in grotta sugli Alburni, sul Matese e sul Marguareis. Ho sempre fatto molto sport, ma ho avuto bisogno di un anno per prendere confidenza con il vuoto”.  

Una volta imparato a usare corde statiche e discensori, e superata la paura del vuoto, è stato facile trovare i fondi per il film?

“Sì. Fin dal primo incontro Rai Cinema, Arté e gli altri coproduttori ci hanno dato fiducia. Ho spiegato che sarebbe stato un film “buio” e difficile, che non avrei usato né degli attori né un compositore famoso, ma loro hanno accettato. Credo che sia una lezione per i filmmaker giovani. Fare compromessi non serve, una buona idea può essere accettata”.  

Nel suo film non c’è il dialogo. Perché questa scelta?

Il Buco non è un film silenzioso, è pieno di voci e di rumori! Zi’ Nicola, il vecchio pastore di Terranova di Pollino, comunica con i suoi animali una grande varietà di suoni. Volevo mantenere un equilibrio tra gli esseri umani e il paesaggio, so che le parole, se ci sono, tendono a nascondere tutto il resto”.

Quindici anni fa Il grande silenzio, un film di Philip Gröning, ha raccontato senza dialogo la vita di una comunità di monaci. Lei ha fatto qualcosa del genere?

Il grande silenzio è un film magnifico, io ne ho fatto un altro. Philip mi ha raccontato di aver sottoposto il progetto al priore del monastero. E lui gli ha risposto di sì, ma gli ha chiesto di tornare dopo 10 anni, per essere sicuro di avere ancora voglia di farlo. Lui ha ubbidito e poi ha girato il suo film. Io per fortuna ho dovuto aspettare di meno”.

Quanto è stato difficile girare all’interno dell’Abisso del Bifurto?

“E’ stato lungo, difficile e faticoso. Tra scendere, attrezzare, girare e risalire le giornate non finivano mai. Una volta abbiamo usato 10 ore per scendere e prepararci, abbiamo girato per un’ora, e poi ci sono servire 5 ore per uscire”.  

Siete arrivati in fondo all’Abisso, a -683 metri?

“No, a circa -400 metri. Qualche scena è stata girata nella grotta di Serra del Gufo, lì vicino, che è più facile e priva d’acqua”. 

Avete usato degli strumenti tecnici speciali? 

“Durante le riprese siamo sempre stati collegati con un cavo di fibra ottica con la superficie, dove lavorava Renato Berta, il direttore della fotografia. Per il suono abbiamo usato il sistema Atmos, magnifico ma che richiede un numero enorme di microfoni”. 

I protagonisti usavano vestiario e attrezzatura d’epoca? 

“Nel film si vedono caschi larghi, scalette fatte con i cavi dei freni delle motociclette, lampade realizzate trasformando dei mestoli. Oggi si scende su corda, tutto è più sicuro e veloce. I nostri attori hanno fatto un corso per imparare a usare le tecniche vecchie”.

C’era qualche trucco?    

“Certo, messo a punto insieme al nostro team di sicurezza. Sotto alle tute di tela gli attori avevano un imbrago dei giorni nostri, le corde erano moderne e sicure”. 

Se ne accorgerà il pubblico?

“Gli speleologi sì, ma spero che ci perdoneranno. Io mi auguro di aver intercettato lo spirito delle grotte e della speleologia”. 

Non è un periodo facile per la Calabria, dalla Sanità fino agli incendi sull’Aspromonte. Nei prossimi mesi il suo film spingerà molte persone a cercare i silenzi, le atmosfere e le grotte del Pollino. Cosa troveranno, secondo lei?

“Un film come Il Buco incuriosisce, ma non può far vedere tutte le bellezze di un massiccio straordinario come quello. L’Abisso del Bifurto è riservato a esperti, ma chi va sul Pollino scopre grotte facili e canyon, borghi e foreste, un’accoglienza straordinaria anche da parte dei pastori. Io mi sono accorto, con sorpresa, che quel paesaggio non finisce mai”. 

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