Ambiente

Cambiamento climatico o uomo, chi ha più colpe nel disastro del Chamoli?

Lo scorso febbraio il distretto di Chamoli, nello stato indiano dell’Uttarkhand, è stato devastato da una onda di piena di inusitata potenza, a seguito del distacco di una valanga di roccia e ghiaccio dalla parete Nord del Ronti Peak (6029 m), nel massiccio del Nanda Devi. 204 tra vittime e dispersi il bilancio finale. Una tragedia per la popolazione locale, una presa di coscienza da parte degli Stati dell’India e del Nepal della crescente fragilità dell’ambiente himalayano e della necessità di studiare con attenzione dove e come realizzare nuove infrastrutture.

Mentre migliaia di soccorritori entravano in azione per salvare gli abitanti dei villaggi inondati e centinaia di lavoratori intrappolati nei tunnel dei due impianti idroelettrici travolti, è iniziata a livello internazionale una fase di riflessione, alla ricerca della causa principale del disastro. Cambiamento climatico o errore umano?

“Non abbiamo imparato nulla dal disastro del 2013 nell’Uttarkhand – scriveva nei giorni successivi alla tragedia il Times of India, ricordando i 4000 morti a seguito della esondazione di un lago glaciale avvenuta a Kedarnath, nel distretto di Rudraprayag, puntando il dito contro il Governo Indiano, colpevole di aver modificato a piacere alcune leggi, per facilitare la costruzione di dighe e impianti idroelettrici persino in aree protette come quella del  Nanda Devi.

Negli scorsi mesi un team internazionale di oltre 50 scienziati, coordinati dal dottore D.H. Sugar del Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Calgary (Canada) ha cercato di ricostruire in maniera certosina il disastro del Chamoli, in modo tale da comprendere cause e dinamica dell’evento.

La ricostruzione del disastro

L’articolo scientifico completo è liberamente consultabile su Science (titolo: A massive rock and ice avalanche caused the 2021 disaster at Chamoli, Indian Himalaya). Lo studio, realizzato mediante utilizzo di una molteplicità di dati estratti da immagini satellitari, registrazioni sismiche, modelli numerici e video amatoriali di testimoni oculari, risulta di lettura complessa. Cercheremo di seguito di sintetizzare i punti principali.

Il mattino del 7 febbraio 2021, una ingente valanga di roccia e ghiaccio è precipitata nella Ronti Gad valley, trasformandosi rapidamente in una onda di piena che ha distrutto due impianti idroelettrici. Sono stati identificati dai ricercatori tre fattori chiave alla base della gravità del disastro:

  1. l‘eccezionale quota del distacco, associata dunque a una ampia energia potenziale gravitazionale;
  2. il peggior rapporto possibile in volume tra roccia e ghiaccio;
  3. lo sfortunato posizionamento degli impianti idroelettrici lungo il percorso del flusso detritico.

Alla base del disastro vi sarebbe un distacco roccioso avvenuto ad alta quota, sulla parete Nord del Ronti Peak (6063 m), a circa 5500 metri, con coinvolgimento di un ghiacciaio sospeso. L’evento si sarebbe verificato 1 km più in alto di quello che è considerato il limite inferiore del permafrost (4000 – 4500 m). Avvio e velocità della valanga di roccia e ghiaccio sono stati stimati a partire dai dati raccolti da due stazioni sismiche. Il processo sarebbe iniziato tra le 4:51:13 e le 4:51:21 UTC, con una velocità media di caduta di circa 205 – 216 km h−1 .

Le analisi DEM hanno mostrato la presenza di una ampia cicatrice trapezoidale sulla parete, che mostra una larghezza a monte di circa 500 metri, e uno spessore medio di circa 180 metri. Tale blocco avrebbe iniziato a muoversi nel 2016, con spostamento più significativo nell’estate 2017-2018.

Analisi geodetiche hanno evidenziato nella massa franata, pari a circa 27 milioni di metri cubi, un rapporto percentuale tra roccia e ghiaccio di 80:20 in volume. Al contrario di quanto di norma avviene in caso di frane, che determinano la formazione di depositi detritici a valle del pendio percorso, in questo caso depositi non si sono ritrovati. La ragione va ricercata proprio nell’acqua derivante dallo scioglimento parziale di quel 20% di ghiaccio, che avrebbe convertito la massa iniziale in un flusso detritico ad alta mobilità. Parte del ghiaccio, come testimoniato da alcuni video, è sopravvissuta in forma di blocchi durante la caduta.

Dall’analisi dei video amatoriali è stata anche stimata la velocità di propagazione dell’onda di piena, originatasi quando la massa ha toccato il fondovalle, finendo nel letto del fiume Rishi Ganga. La velocità massima è stata riscontrata nei pressi dell’impianto idroelettrico Rishiganga (25 m s−1), ovvero 15 km a valle della sede del distacco. In corrispondenza dell’impianto Tapovan, secondo coinvolto dalla piena, la velocità risulterebbe essere diminuita a valori attorno a ~16 m s−1. Superato l’impianto si è registrata una ulteriore diminuzione (~12 m s−1).

Di chi è la colpa?

“Sebbene non si possa attribuire al cambiamento climatico la causa assoluta del disastro, il possibile incremento di frequenza della instabilità dei pendii in alta quota potrebbe risultare legato al surriscaldamento atmosferico e ai corrispondenti cambiamenti su lungo termine delle condizioni criosferiche (ghiacciai, permafrost). Molteplici fattori dietro questi elencati, hanno contribuito al generarsi della valanga di roccia e ghiaccio del Chamoli, inclusa la struttura geologica, la topografia scoscesa, possibili disturbi termici del permafrost indotti dal surriscaldamento, sollecitazioni indotte dal collasso di ghiacciai adiacenti e sospesi e aumento della infiltrazione dell’acqua di scioglimento nei periodi miti”, si legge nel paper.

Dall’altra parte non si può dimenticare il ruolo dell’uomo. “L’evento ha generato una serie di domande sullo sviluppo di forme di energia pulita, adattamento al cambiamento climatico, governance errate, conservazione, giustizia ambientale e sviluppo sostenibile in Himalaya e altri ambienti di montagna. Ciò evidenzia l’importanza di una migliore comprensione delle cause e dell’impatto dei rischi che in montagna possono portare a simili disastri. Anche se gli aspetti scientifici sono il focus del nostro studio, non possiamo ignorare la sofferenza umana e gli emergenti impatti socio-economici indotti. Proprio la tragedia umana ha motivato gli autori a esaminare tutti i dati a disposizione e comprendere come questi, le loro analisi e interpretazioni, possano risultare utili a orientare i processi decisionali“.

“Il disastro ha tragicamente rivelato i rischi associati alla rapida espansione degli impianti idroelettrici in un territorio caratterizzato da crescente instabilità. Favorire un dialogo inclusivo tra governi, stakeholders locali e comunità, settore privato e comunità scientifica potrebbe aiutare a valutare, minimizzare e prepararsi adeguatamente ai rischi esistenti. Il disastro insegna che per essere sostenibili a lungo termine,i progetti degli impianti debbano tenere conto delle condizioni sociali e ambientali presenti e future, mitigando i rischi alle infrastrutture, al personale e alle comunità.”

“I video dell’evento – proseguono i ricercatori – evidenziano che le persone direttamente a rischio non siano state allertate per tempo. Ci siamo chiesti cosa sarebbe successo in presenza di sistemi di allarme. Con sistemi idonei ci sarebbero stati almeno 6-10 minuti di tempo tra diffusione dell’allerta e arrivo dell’onda al Tapovan”. Tempo limitato che avrebbe consentito però una evacuazione dei lavoratori.

Un sistema di allarme è stato installato effettivamente dopo l’evento, vicino Raini. Ma, come evidenziano gli esperti, a poco serve se manca una modalità efficace di comunicazione degli eventuali segnali di allerta alla popolazione. Serve educare il pubblico e fare esercitazioni.

La dinamica del collasso

Di seguito la video-ricostruzione del disastro, pubblicata dalla BBC.

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