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Le Portatrici carniche: storia di donne tra le vette e la Grande Guerra

Ci siamo riunite con il buio, quando gli animali, i campi e gli anziani costretti a letto non avevano più necessità da soddisfare. Ho pensato che da sempre siamo abituate a essere definite attraverso il bisogno di qualcun altro. Anche adesso, siamo uscite dalloblio solo perché servono le nostre gambe, le braccia, i dorsi irrobustiti dal lavoro. Nel fienile silenzioso, siamo occhi che inseguono altri occhi, in un cerchio di donne dogni età. C’è chi ha il figlio attaccato al seno. Qualcuna è poco più di una bambina, se di questi tempi è ancora ammesso esserlo, se in questa terra aspra che non concede mai nulla per nulla sia mai stato possibile esserlo.”

Inizia così l’impresa delle Portatrici raccontata in “Fiore di roccia” di Ilaria Tuti, figure dimenticate da una Storia che racconta solo le gesta degli uomini. Ai battaglioni sulle vette occorrono viveri, medicinali, munizioni: come contadini e taglialegna sanno bene, non ci sono strade che possano essere percorse da veicoli, né mulattiere. Si tratta di ascese di ore, su pendii impietosi. C’è bisogno di aiuto, e le donne non si tirano indietro: «Anin, senò chei biadaz ai murin encje di fan» (andiamo, altrimenti quei poveretti muoiono anche di fame).

Ilaria Tuti riporta in superficie una storia dimenticata da molti, soprattutto al di fuori del Friuli. Come Donato Carrisi ha scritto nel suo romanzo “La donna dei fiori di carta”, infatti, “Quante donne avrebbero meritato un posto nella Storia umana e sono sparite da essa perché un mondo di maschi ha deciso di non concedere loro pari dignità? Un vero genocidio, se ci pensate”. Grazie anche alla loro abnegazione, il fronte italiano della Zona Carnia non cedette mai, almeno finché i soldati non dovettero abbandonare le posizioni mantenute con così grandi sforzi e sacrificio di vite e ripiegare sul Piave, dopo la sconfitta di Caporetto. Gran parte degli eventi descritti nel romanzo sono realmente accaduti, o hanno ispirato le parole della scrittrice, seppure in tempi più dilatati rispetto a quelli che troviamo nelle pagine.

Di solito guardiamo al passato con l’occhio benevolo che si riserva a quanto ormai viene considerato arretrato e superato, specie per la condizione femminile, eppure queste donne ci stupiscono per la loro intraprendenza. I sacrifici che hanno fatto, per portarci fin dove siamo, unite, sono qualcosa di cui tener conto, e di cui essere grate.

«I giornali scrivono che questo conflitto ha significato molto per lemancipazione delle donne» le dico. […]
«
Ma che vuol dire ‘emancipazione?»
«
Che le donne sono diventate più indipendenti, hanno potuto fare cose che prima non facevano. Molte hanno dovuto prendere il posto degli uomini nelle fabbriche, nei negozi e anche negli uffici. Sono caduti i pregiudizi secondo cui non ne erano capaci o non avrebbero dovuto.»

Maria non sembra convinta.
«
Noi lo abbiamo sempre fatto il lavoro degli uomini, da quando emigravano a ora che sono al fronte.»

La nostra capacità di bastare a noi stesse non ci è stata riconosciuta, né concessa. Labbiamo tessuta con la fatica e il sacrificio, nel silenzio e nel dolore, da madre in figlia. Poggia su questi corpi meravigliosamente resistenti ed è a disposizione di chiunque ne abbia bisogno. Si nutre di spirito infuocato e iniziativa audace, vive di coraggio. Vive di altre donne. Siamo una trama di fili tesi gli uni sugli altri, forti perché vicini.

Maria Plozner Mentil è il simbolo delle Portatrici: è lunica donna a cui sia stata intitolata una caserma, oltre che la prima a ricevere, anche se solo nel 1997, la Medaglia dOro al Valor Militare. Proprio il non essere state militarizzate ha fatto sì che non solo non ricevessero il sostegno economico spettato invece ai soldati che avevano combattuto nel conflitto, ma soprattutto le ha fatte dimenticare molto a lungo. Eppure, per chi al fronte si trovava davvero, le Portatrici erano considerate al pari di un reparto, e veniva loro rispettosamente rivolto il saluto militare. Maria Plozner Mentil era una giovane madre, venne colpita da un cecchino mentre saliva a consegnare i rifornimenti. Fu sepolta con gli onori militari sotto i bombardamenti, in presenza di tutte le sue compagne e di un picchetto militare. Ora si trova nel Tempio Ossario di Timau, insieme a 1626 alpini, fanti e bersaglieri. Allingresso, la scritta: «Ricordati che quelli che qui riposano si sono sacrificati anche per te». Si ritrova molto di lei nei personaggi del libro.

Ma perché fiore di roccia? I soldati, in una situazione particolare, avrebbero desiderato donare delle rose a queste donne, fiori che però, chiaramente, erano irreperibili. Scelsero, quindi, le resilienti stelle alpine: «È questo che siete. Fiori aggrappati con tenacia a questa montagna. Aggrappati al bisogno, sospetto, di tenerci in vita

È una storia potente, che cattura per le splendide descrizioni dei luoghi e la profondità dei personaggi e commuove per la consapevolezza che quelle vicende si sono svolte davvero. I sentieri per la fienagione si sono trasformati nelle rampe d’accesso per i proiettili e nei cortei per il trasporto dei caduti. Chi portava cibo per un’intero battaglione doveva spesso farsi bastare per l’intera giornata una patata o poco più. Occorreva sacrificare vite in azioni dimostrative disperate quando alcuni uomini disertavano, per riabilitare il nome della compagnia. Le pagine di “Fiore di roccia” ci portano direttamente sul fronte, dove donne e uomini hanno combattuto, uguali. Perché “non è vero che le donne non sono mai scese in battaglia. Semplicemente, luomo le ha dimenticate.”

Come scrive Ilaria Tuti nelle sue note finali, “ricordare è nostro dovere e responsabilità. In tempi in cui ci si riempie spesso la bocca in modo inopportuno di parole come «Italia», «Patria» e «confini», teniamo ben presente ciò che hanno significato per milioni di giovani, da entrambe le parti, e cerchiamo di recuperare un sentimento di pudore davanti al sacrificio.”

Titolo: Fiore di roccia
Autore: Ilaria Tuti
Editore: Longanesi
Pagine: 320
Prezzo: 18,80

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