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Sui ghiacciai alpini le tracce radioattive del disastro di Chernobyl

Che nelle profondità dei ghiacciai siano conservate tracce della storia dell’umanità è un dato ormai chiaro. I carotaggi glaciali e le successive analisi dei composti in essi contenuti consentono di ricostruire interi periodi storici in cui sostanze, che in maniera generica chiamiamo inquinanti, sono state in grado di viaggiare anche a grandi distanze per poi essere immagazzinate negli strati di ghiaccio. Uno studio internazionale pubblicato di recente sulla rivista scientifica The Cryosphere, condotto sui ghiacciai alpini dei Forni, in Italia, e del Morteratsch, in Svizzera, afferma che anche la superficie dei ghiacciai possa fornire informazioni su eventi del passato, quali test e incidenti nucleari.

La crioconite, un sedimento scuro che si accumula superficialmente in estate, mostrerebbe infatti in tali siti dei valori di radioattività anomali. Non compatibili con il grado di radioattività presente attualmente a livello aereo sull’arco alpino. L’Università di Milano-Bicocca, l’Istituito Nazionale di Fisica Nucleare, l’Università di Genova, l’Università Statale di Milano, l’Università di Pavia e alcuni istituti di ricerca polacchi e inglesi, da anni impegnati in maniera congiunta nell’analisi della radioattività della crioconite alpina, sono giunti a interessanti conclusioni.

Crioconite e radionuclidi

La crioconite è un materiale che si presenta sottoforma di piccoli granuli scurii, composti all’85-95% da minerali, per la restante parte da materia organica. Nella formazione di tali granuli sembrano giocare un ruolo importante i cianobatteri. Da oltre un decennio è noto che essa mostri una elevata capacità di trattenere radionuclidi. Addirittura superiore a quella di matrici solitamente utilizzate per il monitoraggio della radioattività ambientale, quali muschi e licheni.

Come riportato nel paper, tra gli anni Quaranta e Sessanta del secolo scorso, l’avvio di test nucleari ha comportato una significativa dispersione di radionuclidi nell’alta troposfera e stratosfera. Con conseguente ricaduta al suolo e contaminazione della superficie terrestre. Tale deposizione è stata monitorata nel tempo analizzando appunto matrici naturali, quali muschi, licheni e torba. L’intuizione di esplorare le capacità della crioconite di intrappolare radionuclidi risale alla seconda metà degli anni Novanta.

I primi studi sono stati effettuati sulle Alpi europee, nel Mar Artico e in Canada. Queste prime ricerche si erano focalizzate sulla presenza nel materiale radioattivo di origine cosmica. Nel 2009 uno studio condotto in Austria ha evidenziato la presenza anche di radionuclidi di origine antropica, nonché altri contaminanti quali metalli pesanti. A differenza dei carotaggi glaciali che, in funzione della profondità dello strato in cui venga rilevato un contaminante, consentono di identificare anche il momento storico della deposizione, la crioconite rende più complessa la datazione.

L’accumulo di radionuclidi nella matrice sarebbe infatti secondario a una loro mobilitazione estiva dai depositi glaciali, per mezzo dell’acqua di scioglimento. In poche parole, particelle radioattive rimaste immagazzinate per un certo tempo nel ghiaccio, vengono dilavate dallo strato che le ha preservate e, in maniera simile a una spugna, vengono assorbite dalla crioconite superficiale.

Chernobyl e la radioattività sulle Alpi

Quantità e qualità dei radionuclidi ottenute tramite le analisi del team internazionale hanno portato a concludere che parte della radioattività rilevabile nella crioconite dei ghiacciai dei Forni e del Morteratsch si possa ricollegare al disastro della centrale di Chernobyl nell’aprile 1986.

Nei campioni analizzati sono infatti stati identificati radionuclidi naturali, quali il piombo-210, così come artificiali, legati a test o incidenti nucleari. In particolare la presenza del cesio-137 rivela una forte contaminazione delle Alpi in concomitanza con l’incidente di Chernobyl. Altri isotopi del plutonio e americio o il bismuto-207, sarebbero invece da ricondurre ai test nucleari effettuati in alta atmosfera negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso.

I rapporti tra i vari radionuclidi immagazzinati nella crioconite alpina non corrispondono a quelli rilevabili in altri siti, come l’arcipelago delle Svalbard o i ghiacciai del Caucaso. A dimostrazione che il fenomeno di accumulo della radioattività sulla superficie glaciale è comune in ogni angolo del mondo. Ma che la natura e la quantità di tali elementi mostri differenze su base geografica, proprio in funzione delle attività nucleari condotte nel tempo nell’area. Di conseguenza, minore è la radioattività rilevabile a livello dei ghiacciai, maggiore è il grado di integrità ambientale dell’ecosistema di alta quota.

E se la radioattività arrivasse a valle?

Comportandosi come una spugna, la crioconite è in grado nel corso degli anni di immagazzinare quantità significative di radionuclidi, e dunque mostrare una radioattività crescente. Nonostante ciò, tengono a chiarire i ricercatori, non sembrerebbero esserci rischi per l’ecosistema e per le persone che vivono a valle, in quanto il trasporto attraverso fiumi e torrenti ne comporta una inevitabile diluizione. Per avere certezza di tali ipotesi saranno condotte in futuro nuove ricerche mirate.

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