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L’invernale solitaria di Walter Bonatti alla Nord del Cervino, l’ultima irresistibile sfida

Voleva ricordare il centesimo anno dalla storica impresa, della “conquista” da parte di Wymper e compagni. Walter Bonatti lo aveva già pensato tempo addietro e ora quello era il momento giusto per la prima invernale sulla Nord del Cervino.

 

Aveva già deciso da mesi di mollare l’alpinismo, nonostante avesse solo 35 anni e una forma splendida, ma la testa che lo aveva sempre guidato diceva basta e quella sarebbe stata l’ultima irresistibile sfida, una “parentesi” da chiudere subito dopo, “senza rimpianti”.

Il primo tentativo

È il 10 febbraio 1965, con Alberto Tassotti e Gigi Panei, della Carnia il primo e abruzzese il secondo, Bonatti risale i subito ripidi pendii. Arrampicano tre giorni sulle placche nere, vanno oltre la “traversata degli angeli” sotto gli strapiombi, ma durante la notte una tempesta li assale furiosa, il barometro (viene quasi tenerezza nel citarlo) va in picchiata. I tre decidono di lasciare la montagna e scendere a Zermatt.

Bonatti però non ha in testa altro ormai e la stampa, quella di carta, scrive che altri sono pronti a tentare dove lui ha appena fallito.

Il secondo tentativo

Il primo giorno

Il 18 febbraio in “gran segreto” con gli sci ai piedi e con i tre amici Guido Tonella, Daniel Pannatier e Mario De Biasi finge una gita. Oltre lo Shewarzsee però Walter si gira e scappa verso la Nord. Mario capisce e lo accompagna ancora un tratto.

Il Cervino incombe nero sull’uomo che lo sfida e non riesce a rinunciare all’ultimo contatto umano. All’Hörnli si entra nell’ombra del gigante. Un abbraccio nel silenzio, il distacco e poco dopo si gira verso l’amico che titubante se ne va, gli esce dalla gola un urlo: “Tutto andrà bene”.

Emozione pura in circolo nel sangue, attorno un non mondo, roccia, ghiaccio, freddo, silenzio, desolazione, dentro e fuori. Il buio arriva presto con la confessata speranza che il maltempo gli dia un motivo per troncare quella sofferenza. Poi Zermatt si illumina e il bagliore lo accompagna fino all’alba, siderale, senza chiudere occhio.

Il secondo giorno

Un’ultima indecisione: scendere o salire? Poi il Cervino diventa suo, butta un paio di pelli di foca e lascia attaccato allo zaino un piccolo orsacchiotto di pezza che la figlia di Pannantier gli ha regalato. La “liberazione” avviene appena inizia ad arrampicare, è completamente assorbito dall’azione.

Sale, traversa, fissa la corda e scende a prender il pesantissimo, sempre di più, zaino. Al buio arriva a uno spuntone da dove potrà rispondere ai segnali luminosi che l’amico De Biase gli invierà dal fondovalle. Inizia la prima notte, gelida ma piena di immagini confortanti: birra, il mare, volti amici. Il barometro fissa verso l’alto: rimarrà bello nonostante qualche nebbia notturna.

Il terzo giorno

La luce e l’arrampicata: su con piacere, poi giù lungo la corda fissa, ancora su con lo zaino e da capo, all’infinito.

A mezzogiorno passa la “traversata degli angeli” dopo averla ripulita dalla neve. Inizia il grande traverso. Cautela, tensione, attenzione, equilibrio. Un piccolo aereo che curiosa e un rapace che viola il suo spazio. Un nuovo bivacco, il martello cade nel vuoto, ma sarà rimpiazzato dal un suo omologo che la meticolosa organizzazione ha messo nello zaino. Ancora una notte trascorsa con i compagni immaginari e i turbamenti reali che il vuoto gelido del luogo, l’isolamento disumano e l’inazione richiamano. Il dubbio d’aver sfidato per orgoglio il destino. Ma ha la certezza d’andare avanti e questo dirà il segnale luminoso inviato a valle. Razzo bianco e verde. Il rosso, quello della rinuncia, vien gettato nel vuoto.

Il quarto giorno

Il mattino lo coglie ancora sotto il peso opprimente dello zaino, con la necessità di alleggerirlo abbandona tutto l’inutile, in particolare i viveri abbondanti.

Entra in una fase di estraniazione dal proprio corpo, forse in uno stato di leggera ipotermia, ma si scuote e riprende a salire per rocce lisce, verticali, traversanti e si sorprende a parlare con Zizi, l’orsacchiotto. È dentro una conchiglia di ghiaccio, alcuni pezzi si staccano da lassù in alto e sibilano precipitando. Ombre, pensieri, i 100 anni, Wymprer  e i compagni che  precipitano. Ecco un’altra notte.

Quinto giorno, è vetta

Alle 6,30 del mattino del 22 febbraio è fuori dal terzo bivacco. Dovrà essere l’ultimo, non ne può più. Il ghiaccio s’è incollato al viso e glielo brucia. Il termometro (sì, ha anche quello) segna -30 gradi.

Deve avvertire De Biasi che tutto va bene, nella mano la lampada elettrica: tre segnali lenti e poi una serie rapidi; vede i segnali da valle e lancia dall’ombra della Gran Becca i suoi. Umanità alla velocità della luce.

Poi l’alba accende la natura di azzurro dentro una trasparenza purissima. Bonatti indugia, lascia che l’incanto riscaldi un poco il suo cuore congelato e accenda l’entusiasmo. Pensa ancora a Wymper, ai suoi uomini che precipitano e alla Luna che sarà raggiunta in quei giorni dal primo mezzo umano: “Eppure io, uomo del mio tempo, ho sentito ancora il bisogno di vivere l’avventura a misura d’uomo, quasi un confronto tra Davide e Golia”, scriverà dopo.

La ripresa dell’azione alpinistica è violenta, quasi dolorosa, sempre spiato dagli aerei famelici di notizie. Alleggerisce ancora lo zaino. Abbandona antichi compagni, come il suo casco che però, al momento di lasciarlo nel vuoto, la mano lo trattiene: è il cuore che reagisce e serra le dita, quel vecchio amico con le ferite sulla superficie rimarrà ancora con lui. Lo abbiamo visto in centinaia di foto quel suo casco.

La fatica e l’aria sempre più fine lo sfiniscono. Alle tre del pomeriggio appare vicina e splendente la croce della vetta, come incandescente nel sole che la trapassa da sud. Pochi passi e Bonatti si infila nell’immensità del cielo e definitivamente della leggenda.

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