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30 anni fa se ne andava Jerzy Kukuczka, il ricordo della moglie Cecylia

Trenta anni fa, sulla parete sud del Lhotse, una corda usurata si rompeva portandoci via per sempre il talento di Jerzy Kukuczka. Era il migliore, il più forte di tutti in quegli anni Ottanta che vedevano l’himalaysmo guadagnarsi le prime pagine dei quotidiani internazionali. Era un talento raro, un uomo determinato spinto verso l’alto da una passione più unica che rara. Secondo uomo, dopo Reinhold Messner, a completare la salita dei 14 Ottomila (in appena 8 anni); primo a raggiungere la vetta di 4 Ottomila in inverno: Dhaulagiri, Cho Oyu, Kangchenjunga e Annapurna; dieci le nuove vie aperte sulle più alte montagne del pianeta, molte in stile alpino. Nel 1989 aveva già fatto tanto, eppure non poteva stare lontano da quelle montagne, quelle su cui si sentiva veramente se stesso, quelle che lo attraevano e sui cui aveva la capacità di vedere tracciati, anche suicidi (com’è stata definita quella che oggi è la Via Polacca al K2, probabilmente il più estremo itinerario dell’Himalaya), dove per gli altri non c’era alcuna possibilità di passare.

A trent’anni dalla  sua scomparsa abbiamo pensato che il modo più bello per ricordare questo fuoriclasse dell’himalaysmo polacco fosse quello di farcelo raccontare da chi, in un giorno del 1975, ha deciso di donare per sempre il suo cuore al forte alpinista: la compagna di una vita Cecylia Kukuczka.

 

Cecylia, come vi siete conosciuti?

“Ci siamo incontrati per caso in un bar: lui stava festeggiando il suo compleanno con due colleghi, io sono andata al bar per chiacchierare con un amico. Non c’erano tavoli liberi, ma notammo che tre persone sedute sembravano in procinto di andare via, così ci avvicinammo domandando se ci fossimo potuti accomodare. Loro suggerirono che avremmo potuto sederci con loro e, nel frattempo, fummo raggiunti da altri due gentiluomini: uno di loro era Jurek Kukuczka.”

Un amore a prima vista…

“I suoi occhi mi hanno fin da subito trasmesso tanto. Erano occhi saggi, sognanti, caldi e pieni di mistero. È stato lui quella sera ad accompagnarmi a casa, ed è così che è nata la nostra relazione. Ci siamo profondamente innamorati, l’uno dell’altro.”

Come viveva questa sua grande passione per la montagna?

“All’inizio della relazione non sapevo che Jurek andasse così tanto in montagna, l’ho percepito gradualmente, conoscendolo. Ho capito che aveva bisogno della montagna come se fosse pane. Le vette lo attraevano come una calamita, una passione senza fine.

La nostra relazione era basata sulla tolleranza e sulla fiducia. Era una vita felice e piena di sorprese.”

30 anni senza Jurek, 30 anni spesi per ricordarlo e mantenerne viva la memoria. Quanto era forte il legame che vi univa e che probabilmente vi unisce tutt’ora?

“Sono trascorsi 30 anni da quanto Jurek non è più tornato dalla parete sud del Lhotse, 30 anni. Ricordo quanto erano lunghe e infinite le nostre separazioni, ma anche quanto belli e meravigliosi erano i ritorni, come li ho aspettati.

Ho sempre creduto che Jurek sarebbe tornato dalle montagne e questo mi ha dato forza e perseveranza nel nostro rapporto.”

Dopo la scomparsa di Jerzy Kukuczka ha deciso di dedicare tutti i tuoi sforzi nel mantenimento di un piccolo museo a lui dedicato. Un impegno difficile…

“È una piccola struttura dove ci sono tante cose: attrezzature, riconoscimenti, tutto quello che gli è appartenuto. È un lavoro difficile, ma sono felice di portare avanti il suo ricorso. Sono onorate ce molte persone ancora oggi vogliano ascoltare la sua storia himalayana. Questo è il premio più importante per me, la sua memoria.”

Tra i visitatori del museo ci sono anche molti giovani, cosa vuole trasmettergli?

“Un’ideale. Voglio dire loro di perseguire sempre nei loro obiettivi di vita, di non avere paura dei fallimenti. I problemi rimangono, sono sempre lì, ma non bisogna mai perdere la fiducia in se stessi. Un po’ come hanno fatto gli alpinisti che hanno saputo risolvere problemi difficili realizzando grandi imprese con determinazione, dignità e speranza. Hanno progredito lasciando un segno indelebile.”

Dimostra un grande rispetto verso l’alpinismo…

“Ho un grande rispetto per coloro che sono rimasti sulle montagne, sono stati pionieri. I primi ad aprire tracciati sulle alte cime del mondo, in molti non sono mai tornati.”

Nell’alpinismo polacco di oggi esiste ancora qualcosa di tutto quel che era Jerzy?

“Gli anni Ottanta e Novanta sono appartenuti agli alpinisti polacchi: erano uomini forti, eroi determinati, in grado di far fronte a qualsiasi problema in autonomia. Portarono l’himalaysmo polacco al più alto livello, fecero grandi conquiste in Himalaya e Karakorum, aprirono vie nuove, in solitaria e raggiunsero importanti traguardi invernali.

Oggi qualcosa è cambiato, l’alpinismo è un po’ più comodo grazie allo sviluppo scientifico e alla tecnologia, ma la scorza dei polacchi non cambia. Gli scalatori di oggi hanno un grande esempio da seguire nella vecchia generazione di alpinisti e, in particolare, in Jurek che ha dimostrato come sia possibile raggiungere ciò che sembrava impossibile.”

Cosa verrà fatto in Polonia per ricordare il trentesimo anniversario dalla sua scomparsa?

“La nostra fondazione ha stampato un libro dedicato alla spedizione in cui ha perso la vita, sulla parete sud del Lhotse. A Istebna è stato poi costruito un Chorten, simile a quello che si trova ai piedi della parete sud del Lhotse, con una targa commemorativa in suo ricordo.”

Lei come trascorrerà invece questa giornata?

“Sotto la parete sud del Lhotse, per rendere omaggio a lui e a coloro che sono rimasi sulla montagna. Accenderò un cero per Jurek, con me ci saranno 100 persone provenienti da tutta la Polonia desiderose di ricordare i 30 anni dalla sua scomparsa.”

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