
È una Elisabeth Revol inaspettata quella che si racconta sulle pagine del quotidiano Le Parisien.
L’alpinista coglie l’occasione dell’uscita oggi in Francia del suo libro, Vivre (edito Arthaud), per tornare a ripercorrere la tragedia sul Nanga Parbat del gennaio 2018 in cui perse la vita l’amico e compagno di cordata Tomek Mackiewicz.
Per la prima volta Elisabeth Revol racconta a cuore aperto il dramma vissuto, una ferita che ancora oggi sanguina, ma che ha trovato il modo di curare. Ovviamente sulle montagne.
“Ho freddo, voglio riposare” sono le ultime parole di Tomek ascoltate da Elisabeth prima che lei decidesse di scendere e salvare se stessa, lasciando lì l’amico in fin di vita con il naso mangiato dal freddo e la bocca sanguinante, sintomo di un edema polmonare. La speranza è che i soccorsi possano arrivare anche per lui, ma la storia ci insegna che così non è successo. Tomek rimarrà per sempre sulla sua montagna.
Un’immagine che tormenta la Revol, che la spinge ad andare in terapia per combattere “l’abisso della disperazione”. È il ritorno alla vita il dolore più grande, il convivere con la sofferenza della perdita, ma anche con i sensi di colpa, i rimorsi che ti divorano dall’interno. Una tortura della mente a cui è difficile scappare, che trascina in un circolo vizioso di “se”, di “ma” e domande a cui è oramai inutile dare risposta: “Perché non abbiamo rinunciato?”. Non si può però tornare indietro, ma solo procedere attraverso il dolore, convivere con esso, attraversarlo e attendere che il tempo possa almeno lenirlo.
Ad aiutare Elisabeth a ritrovare la via anche la fede in Dio, che le ha permesso di “riprendersi un po’ dalla discesa del Nanga Parbat”. Una fede ritrovata dopo averla persa nell’adolescenza con la morte a causa del cancro di sua mamma, proprio colei che le aveva fatto conoscere la montagna.
E poi c’è la montagna, vera medicina che allevia l’animo di Elisabeth. “Una dipendenza” confessa la francese. Il suo modo per essere viva, nonostante in molti non capiscano che lassù, nell’aria sottile, l’alpinista non va a cercare il pericolo o l’adrenalina dello sfiorare la morte, ma tutto il contrario. E a ferirla ancora di più sono proprio le accuse violente al ritorno dal Nanga Parbat di essere andati a cercarsela, di essere andati a rischiare su montagne troppo alte, troppo difficili, in inverno. Parole di chi non comprende un’esigenza interiore e vitale, “un richiamo” l’avevo definito parlando recentemente di Daniele Nardi. “È solo in montagna che provo emozioni così forti, perché solo lì sono in mezzo ai miei sogni, lì realizzo i sogni che avevo da bimba” raccontava la Revol durante una serata nel dicembre del 2018. “Ho bisogno di avvicinarmi a Tomek. Quando sono in montagna, sono con lui”.
E così che è tornata prima a dormire, poi a correre, poi ad arrampicare e infine sugli 8000. “Sì, sono felice oggi, non sono più in modalità sopravvivenza” dice Elisabeth Revol. E questa è la cosa più importante.