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La morte di Daniele Nardi, il Nanga Parbat e Scientology nell’inchiesta di Fanpage

Era proprio necessario? È questo quello che mi sono chiesta dopo aver visto il reportage di Fanpage dal titolo “Morte di Daniele Nardi, Scientology dietro la scalata sul Nanga Parbat che gli è costata la vita”.

E la domanda, si badi bene, non è da intendersi sull’opportunità di realizzare un reportage su Scientology e sulle modalità della chiesa per entrare nelle scuole e istituzioni. Sono questioni che non riguardano Montagna.tv.

A noi interessano le montagne, gli uomini che le salgono e i loro sogni.

In questa prospettiva, quello che mi chiedo, articolando meglio la domanda iniziale, è: era proprio necessario svilire il sogno di un alpinista per lo scopo di fare un’inchiesta su Scientology?. E anche: era proprio necessario sfruttare un’inchiesta su Scientology per svilire, ancora una volta, un alpinista e il suo sogno?

A mio giudizio, la risposta è no.

Il tentativo, mi permetto di definirlo maldestro, di instillare il dubbio che Daniele Nardi fosse su quella montagna e su quello sperone solo perché spinto dalla volontà di qualcun altro di portare in vetta “una misteriosa bandiera della ‘Gioventù per i diritti umani’”, è ingiusto.

Che lo sia, è evidente a noi che lo abbiamo ascoltato (fino allo sfinimento) raccontarci del Nanga Parbat e dello Sperone Mummery con una luce negli occhi che solo un’ardente passione che brucia può alimentare. Perché quello che ti spinge a scalare lo sperone di un Ottomila, nel freddo dell’inverno himalayano, a 5000 km di distanza da tua moglie e tuo figlio di pochi mesi è una voce dentro di te, che non riesci a non ascoltare. “La montagna chiama!” scriveva Karl Unterkircher poco prima di morire, anche lui, sul Nanga Parbat. Era estate, era l’inviolata e pericolosa parete Rakhiot.

Certo, si può poi discutere che la passione talvolta si possa tramutare in ossessione, che ti spinge oltre ai limiti e, a volte, ti uccide. Altre volte a uccidere è la sfortuna.

Le ragioni sottese all’agire umano sono molte: amore, ambizione, odio, vendetta, soldi, ideali, anche religiosi. Si vive e si muore per tutto questo.

Daniele Nardi è vissuto e morto per il sogno di aprire quella che per lui era la più bella via di sempre. È vissuto e morto per amore, di una montagna, di uno Sperone. È vissuto e morto per un ideale di alpinismo e per l’ambizione di scrivere il proprio nome nella sua storia. Motivi futili per alcuni. Del resto, gli alpinisti sono o non sono i “conquistatori dell’inutile”?

Un breve accenno vorrei farlo, in conclusione, a due questioni emerse anche nel servizio di Fanpage.

Continuo a ritenere svilente per la memoria di Tom Ballard che si persista a trattarlo come un ragazzino, privo di volontà e carattere, plagiato da Nardi. È innegabile che lo Sperone Mummery non avesse per lui il profondo significato che aveva per Daniele, ma bisognerebbe fermarsi a riflettere sull’ingombrante bagaglio di esperienze, soprattutto umane, di Tom e forse si potrebbe trovare una risposta meno banale al perché era su un 8000 per una via nuova.

Infine, ricordando che Daniele e Tom non sono morti per una valanga, vorrei rispondere alla questione sollevata ancora una volta sull’essersi “andati a suicidare”, chiedendo rispettosamente se non sia il caso di smetterla.

Una buona notizia: il 21 novembre verrà presentato al festival Monza Montagna il libro “La via perfetta – Nanga Parbat: sperone Mummery” scritto da Daniele Nardi con Alessandra Carati per l’importante casa editrice Einaudi.

 

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