Alpinismo

Simone Moro, obiettivo Batura II

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BERGAMO — E’ sulla bocca di tutti dall’età di 13 anni. Da quando da “primo della classe” scala la storica parete dei Militi, e diventa allenatore della nazionale italiana di arrampicata sportiva. Ma Simone Moro entra nella leggenda nel maggio del 2001 quando senza ossigeno e di notte, oltre gli 8000, si carica sulle spalle il compagno Moores e lo porta al sicuro nella tenda.

Moro, quali sono le dicerie più ricorrenti legate al suo nome?
Mah, fortunatamente non sono molte. Ultimamente forse, di vendere la pelle dell’orso prima del tempo. Credo dipenda da un mio atteggiamento che non è certo frutto del caso né tanto meno dell’ostentazione. Reinhold Messner è la figura sportiva che ho seguito con maggior curiosità e ammirazione per imparare a fare della montagna la mia professione e per valorizzare gli strumenti umani, culturali e caratteriali utili non solo in parete ma in tutto il corso della vita.  Mi ha anche insegnato che gli obiettivi sportivi vanno sempre dichiarati e con la stessa enfasi vanno poi mostrati i successi e le sconfitte – come è accaduto recentemente per la rinuncia alla vetta del Batura -; la grandezza di un uomo non dipende dai suoi risultati sportivi. E’ come quando un atleta decide di prendere parte alle Olimpiadi; lo dichiara prima di parteciparvi. Mi dicono, anche, di rompere la poesia quando utilizzo il telefono satellitare in spedizione. E’ vero. Immaginiamo Hillary con il suo diarietto e la matita mentre saliva la più alta montagna del mondo, spodestandola  dai nembi e dalle nevi, che l’ avevano custodita quando ancora era una montagna incantata. E’ magia, null’altro. Oggi viviamo nell’era della comunicazione, della “rete”: terra, mare, cielo; distanze che si accorciano. Un alpinista allora deve “saper fare” ma soprattutto deve “saper comunicare”. Il mondo della montagna ha bisogno di uomini e donne che facciano arrivare anche ai non addetti ai lavori questa meravigliosa realtà, che non deve salire sugli altari della cronaca solo come  “montagna assassina”.  
 
Parliamo allora del futuro dell’alpinismo: quali sono i nuovi orizzonti?
Il vero alpinismo, l’avanguardia, lo spartiacque è quello degli anni Ottanta, quello di Messner, per intenderci. Oggi sono tutti in fila, anche nelle idee; facendo delle cose nuove stanno ancora pensando da “vecchi”. “Faccio tutti gli 8000 della terra” e sono già 13 ad averlo fatto. “Faccio la via normale nel più breve tempo possibile” e magari c’è già chi negli anni Ottanta l’aveva sperimentato. Non si ha più voglia di perdere. La gente non è più abituata a perdere.  Mi ritengo fortunato di aver fallito molte volte,  questo significa aver imparato ma anche che sono ancora vivo. L’alpinismo del miei sogni prende il testimone del passato – la fantasia e l’entusiasmo dei grandi che hanno scritto le pagine più belle dell’alpinismo – e le fa proprie per superare i limiti che oggi siamo chiamati a demolire. Non più le barriere fisiologiche – salire l’Everest senza ossigeno – , ma per esempio, tentare qualcosa di impossibile. Parlo delle pareti difficili  per un certo tipo di stile alpino, le spedizioni improbabili per il badget economico risicato, le vette inviolate, e ce ne sono moltissime. E’ sempre faticoso ed incerto scalare una montagna, sono il primo a sostenerlo, ma oltre alla fatica ci vorrebbe anche un po’ di fantasia, di inventiva, di fame d’ignoto. Solitario o in cordata, d’estate o in inverno, con o senza spit, in velocità o in lenta progressione, nelle Alpi, nell’Himalaya, al Polo o sulla falesia di casa propria. Se ognuno di noi avesse un pezzo di legno identico da scolpire otterremmo tante diverse sculture. Così per una parete di roccia o una sequenza di movimenti. Ognuno di noi poserebbe lo sguardo e la fantasia su linee o modi diversi di salirla. Non mi interessa essere il milletrecentesimo che sale l’Everest; la cosiddetta corsa agli Ottomila.  Questo è il tipo d’alpinismo che credo, non abbia futuro.
 
La prossima “missione impossibile”?
Sicuramente ci sarà un ritorno in Pakistan. Mi sono chiesto qual è il punto più alto del pianeta ancora inviolato dallo scarpone dell’uomo? Non è stato facile trovarlo ma grazie anche agli strumenti di cui disponiamo oggi e alle mia nota caparbietà, l’ho identificato: parlo del Batura II, che ho già tentato quest’anno, fallendo. Psicologicamente è difficile perché muovi dei passi dove nessuno è mai stato finora; ci vogliono 20 Everest per fare un Batura. Tecnicamente invece la vetta del Batura è circondata da una fascia rocciosa che, come un castello protegge la porzione sommatale della vetta. Ci sarà da arrampicare e spesso gli alpinisti sono ottimi camminatori e pessimi arrampicatori. Lì bisogna dimostrare di essere grandi alpinisti, essere alpinisti polivalenti, completi. 
 

Dicono che lei sia un gran comunicatore…
Dicono soprattutto che sono un gran chiacchierone; che il mio modo di manifestare le cose con entusiasmo le fa apparire più grandi di quelle che in realtà sono. Avere dei valori aggiunti non credo debba essere un difetto. Sono un buon comunicatore e per la montagna, soprattutto per la montagna vale la regola: tutto, purché se ne parli. Inoltre lo sport va praticato ma anche raccontato, soprattutto questo, dove non c’è pubblico o traguardo.

 
Non l’hai mai odiata, anche solo per un istante, la montagna?
Mai, neppure quella del 1997, l’Annapurna, dove ho perso un amico. Perché la stessa montagna mi ha regalato un amico insostituibile, il kazako Anatoli Boukreev. L’ho conosciuto nell’ottobre del 1996. Tra il campo 1 e il campo 2 del Shisha Pangma. Battevo la traccia e lui era dietro con lo zaino. Ogni tanto mi sedevo perché ero stanco e vedevo che lui invece cercava di raggiungermi e quando l’ha fatto mi ha battuto sulla spalla e mi ha detto: "Grazie stai facendo un grande lavoro".
Mi sarebbe piaciuto farvelo conoscere.

Maria Teresa Biroli

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