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Vajont, la polemica Pansa-Corona

In undici pagine del suo ultimo libro, “L’Italia non c’è più”, il giornalista Giampaolo Pansa ripercorre alcuni ricordi tra cui anche quelli relativi alla tragedia del Vajont e lo fa in chiave abbastanza polemica. Del resto il capitolo in questione si intitola “Un cinico al Vajont” e quindi non ci si poteva aspettare nulla di diverso.

Pansa racconta il caso di Belluno, che se da un lato si trasformò nel quartier generale dei soccorsi, dall’altro divenne anche quella che lo scrittore definisce una “città del sesso”, con prostitute pronte a soddisfare i molti soccorritori. Così si legge: “All’orrore subentra la frenesia di provare a se stessi di essere ancora in vita. E la frenesia genera il primo dei desideri: il sesso. Le poche prostitute di Belluno non potevano certo soddisfare tutti i clienti. Le squillo facevano gli straordinari”.

Questo ha destato molte polemiche tra cui spicca anche quella di Mauro Corona, che ha ribattuto: “Ho parlato del Vajont con tutto il pianeta. Con sopravvissuti, superstiti, giornalisti. O fotografi, come Bepi Zanfron. Non mi è mai stato sussurrato nulla su giri di ragazze destinate ad allietare la gente rimasta o i cronisti giunti da fuori – e ancora – o si porta la documentazione o si tace. Quando si scrive un libro storico devi avere le prove di ciò che dici. Porti le prove oppure è solo un espediente pubblicitario”.

La risposta di Pansa non ha tardato ad arrivare: “Faccio il giornalista dal 1960. Non dico nulla riguardo alle polemiche. Ne ho fatte tante nella mia vita…” e aggiunge: “Ho visto tutto con i miei occhi”. Il racconto poi prosegue: “Ero un giovane di 28 anni e venni spedito a seguire il dramma del Vajont. Ero un ragazzo sveglio ed energico. Lavoravo, mangiavo, scrivevo. E certo se trovavo una ragazza, che mi tiravo indietro? In realtà nel mio libro racconto anche di come si comportarono i giornalisti che furono spediti a Longarone in quell’ottobre del 1963. Come quando Giorgio Bocca tirò una bistecca ad un collega”.

A chi gli fa notare che però dal suo racconto Belluno ne esce come postribolo, lui risponde: “Ho raccontato le mie esperienza di 54 anni fa. Certo che c’erano le prostitute. C’era una quantità di uomini, tutti soccorritori, da quelle parti che pur qualcuno si sarà dato da fare”.

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2 Commenti

  1. Pansa è sempre stato un giornalista, scusate giornalaio piegato all’idea dominante di turno
    Ma quindi Pansa a Belluno andav a p……? degno esempio delle idee che inconsciamente ha sempre seguito

  2. Chissà se Giampaolo Pansa segue Montagna.tv e ne legge i commenti… Nel caso, potrebbe riflettere sulla brutta abitudine (sua e di altri) di generalizzare e attribuire a chiunque le proprie categorie di pensiero e i propri comportamenti.
    Io sono nato all’Aquila, vivo qui, ero qui il 6 aprile 2009: prima della “gran cornata” che il terremoto ci ha elargito, la mia città non era un posto meraviglioso per vivere, una piccola provincia con i suoi enormi limiti, non solo culturali. Però, io e la mia famiglia, e tantissimi altri, abbiamo tenuto duro e lo facciamo ancora, stanchissimi e provati.

    Qui tutto è andato a puttane, caro Pansa, le relazioni sociali, i luoghi di aggregazione, le prospettive future dei ragazzi, le lecite speranze per il lavoro e le attese di serenità dei vecchi. Tutto, tranne i soccorritori e quelli – fra noi – che si sono rimboccati le maniche e ci hanno provato, ci provano ancora, testardi bestie muli montanari che altro non sono, e spesso si chiedono il perché di tanta testardaggine.
    Immagino, sono certo, che la gente di Longarone e della valle del Vajont abbia dovuto fare i conti con i medesimi stati d’animo. Ma, evidentemente, solo l’esperienza diretta e personale, bruciante e dolorosa, segna l’anima e rende consapevoli fino in fondo degli eventi.
    Ciò detto, quel che dice Pansa è però vero, cioè che dopo le grandi tragedie collettive si assiste sempre a una reazione vitale, anche sproporzionata, che sfiora quasi il ridicolo. Per restare all’Aquila, dopo la grande peste del 1656 ci fu un’impennata di natalità senza precedenti nella storia della città. L’animo umano è semplice, e sopravvivere a una catastrofe porta un senso di leggerezza per lo scampato pericolo, che paradossalmente si accompagna al dolore del lutto e alle paure.
    Però mi sto riferendo alla popolazione colpita, perché se questo tipo di reazione migra dal sopravvissuto al soccorritore e al cronista, scivoliamo nel patologico. Per correttezza, separerei le due posizioni: il comportamento della vittima della tragedia è fisiologico, quello del soccorritore allegro e del giornalista in amore è fregola. A ciascuno il suo.

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