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I Lepini, monti dimenticati tra incuria e inquinamento

di Gian Luca Gasca

CECCANO, Frosinone – “Vedi Gian Luca, almeno per il versante che guarda la valle del Sacco, i Lepini sono degli scogli in un mare di morte.” Afferma senza tanti peli sulla lingua Diego Magliocchetti riferendosi al grande inquinamento che contraddistingue la pianura sottostante.
Personaggio singolare Diego. Lo staresti ad ascoltare per ore e ore mentre racconta la sua terra. Ci siamo conosciuti al telefono quando gli ho spiegato che per conto del CAI mi sarei imbarcato in un viaggio attraverso la catena appenninica e che sarei andato a trovarlo per farmi raccontare le sue montagne, i Lepini. I Lepini quelli veri, quelli da cartolina ma sofferenti per lo spopolamento, per l’incuria e per l’inquinamento. Un avvelenamento sordido e denunciato più volte quello di queste terre ai piedi di montagne così semplici. Cime che sfiorano i mille metri o poco più che han dato la vita a paesi e borghi di una bellezza scolorita come Patrica, dove l’erba cresce voracemente sui campanili delle chiese o tra i mattoni delle case.

Calpestiamo lastricati romani e sfioriamo quasi con noncuranza portali settecenteschi mentre percorriamo i vicoli del borgo sotto lo sguardo sempre costante della croce in vetta a Cacume, montagna (forse) decantata da Dante. Sotto di essa si distribuiscono in gradazioni gialle e rossastre gli alberi di castagne, uno dei prodotti tipici di Patrica, mi raccontano. “Oggi però la produzione sta calando a causa di malattie e infestanti” raccontano con malinconia al bar del paese mentre beviamo un caffè tra incalliti giocatori di briscola e acre odore di sigaretta nell’aria.
“Patrica non è solo castagne e montagna. Patrica è un centro lepino fantastico” affermano con sicurezza i locali “ma la zona sottostante è molto inquinata nonostante ormai molte aziende siano dismesse. Pensi che il fiume Sacco oggi è al primo posto tra quelli più inquinati d’Italia.”
“Qui sotto, nella pianura, coltivano?” chiedo perplesso. “Questa è un’altra barzelletta” mi rispondono. “C’è il divieto di pascolo e fienagione dalle sponde del fiume fino a cinquecento metri di distanza ma, nonostante questo, davanti agli occhi di tutti si vedono pecore che pascolano fino alla riva del fiume; si vedono rotoballe di fieno; bufale che pascolano in zone vietate. Qui nessuno vede nulla.”
“Secondo voi” interviene Diego “C’è una via d’uscita da tutto questo?” La risposta è secca ed immediata: “No, finché ce ne freghiamo della situazione. No, finché il problema non viene vissuto come nostro, personale. No, finché chi di dovere non si domanderà: chi la consuma quella carne? Chi lo beve quel latte?”

Sto superando un’altra barriera delle nostre montagne, sto entrando in un mondo in cui le Alpi mi sembrano lontane come l’Himalaya. Sto per addentrarmi in una sfera in cui la parola “montanaro” suona stonata eppure, anche qui, nel profondo sud appenninico in cui sto per dirigermi, esistono i montanari e sto per andare alla scoperta di queste figure divise tra mare e montagna.

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