Jeanne Immink, la rivoluzionaria pioniera dell’arrampicata al femminile
Prima donna a salire una via di quarto grado e a scalare d’inverno, l’olandese trapiantata in Italia ha dato il proprio nome a due cime dolomitiche, inventato il primo imbrago e rotto atavici stereotipi
La Immink è una cima che si eleva massiccia a sud della Pala di San Martino, di cui viene considerata in pratica una sorta di sorella minore. Quantomeno per mole, di certo non per estetica. Sia ad ovest che ad est, infatti, Cima Immink s’impone con alte ed impervie pareti, percorse da vie di roccia diventate con il tempo prestigiose e ripetute. La più nota e frequentata porta il nome di Solleder e Fontein e s’inerpica sullo spigolo sud-ovest dal 1930. Più recentemente, nel 2011, Heinz Grill vi ha aperto, sul versante nord-ovest, un itinerario chiamato Pilastro Rosso.
I primi salitori di questa vetta, tuttavia, furono nell’agosto 1877 Cesare Tomé, Santo Siorpaes e Tommaso Dal Col. Si trattava di una cima ancora senza nome, battezzata curiosamente “Immink” soltanto nel 1891, quando un’omonima signora olandese, accompagnata dall’amico polacco Eugen Zander e dalle guide Giuseppe Zecchini e Antonio Dimai, riuscì a scalarla. Ma c’è di più: esattamente dieci anni più tardi, nel 1901, Ralph Gordon Noel Milbanke-King, meglio conosciuto come Conte di Lovelace, decise di battezzare l’esile pinnacolo che si erge proprio accanto a quella cima con il nome di Campanile Giovanna. In questo modo, spiegò in seguito, le due vette affiancate avrebbero ricordato per sempre il nome completo di quella donna brillante e fuori dal comune. Il Conte di Lovelace era infatti rimasto colpito dalla sua storia, raccontatagli dalle due guide che quel giorno lo accompagnavano sul pinnacolo inviolato: le leggende del Primiero Michele Bettega e Bortolo Zagonel.
L’amore per le Dolomiti dopo aver girato il mondo
Ma chi era Jeanne Immink? Perché è tanto importante, oltre che ingiustamente dimenticata? Nata – con il cognome da nubile “Diest” – ad Amsterdam nel 1853, prima di quattro sorelle, Jeanne fu costretta dall’indigenza della propria numerosa famiglia ad un matrimonio prematuro con l’insegnante Karel Immink, assieme al quale, in seguito, emigrò in Sud Africa: una terra che allora era di estrema frontiera e nella quale convivevano boeri e afrikaner, inglesi, zulu e avventurieri. La coppia si stabilì a Pretoria e nel 1879 diede alla luce un bambino, battezzato Louis. Fin qui nulla di strano, sennonché, quando il pargolo aveva appena compiuto due mesi di vita, Jeanne, infatuatasi di un ufficiale inglese di stanza nella stessa città, decise di abbandonare figlio e marito per seguire l’amante in India, dov’era stato nel frattempo trasferito. Rimasta incinta, e in accordo con il nuovo compagno, la Immink tornò da sola in Europa, più precisamente in Svizzera, dove diede alla luce un secondo maschio che decise di chiamare con lo stesso nome del primo: Louis. Oltre che molto colta – all’epoca, infatti, Jeanne era riuscita ad imparare ben cinque lingue – la donna era anche assai scaltra: all’insaputa del compagno, si era infatti finta vedova, con lo scopo di dare a Louis il proprio cognome da sposata, Immink, ed evitandogli in questo modo la condizione di figlio illegittimo. Intanto, l’ufficiale inglese le elargiva mensilmente una discreta somma per il mantenimento che le consentì fin da subito di dedicarsi alla nuova frontiera del turismo alpino: la montagna.
Le “impensabili” salite sulle Dolomiti. Anche d’inverno
I suoi exploit alpinistici non le impedirono di prendersi cura del piccolo Louis, che si divertiva a firmare con la propria incerta grafia pre-scolastica i “registri dei forestieri” dei numerosi alberghi che si trovavano via via a visitare. Sul registro dell’Albergo Antelao, ad esempio, troviamo scritto da Louis, in perfetto italiano: “sono qui per accompagnare la mia mamma, che domani va al Pelmo”. In quegli anni, la Immink ingaggiò le migliori guide dolomitiche in circolazione, quali i già citati Michele Bettega e Antonio Dimai, ma anche Sepp Innerkofler, che le permisero di cimentarsi in ascensioni al limite delle massime difficoltà del tempo: fra tutte, lo Schmittkamin alla Punta delle Cinque Dita, con passaggi di quarto superiore, e la parete nord della Cima Piccola di Lavaredo. Amante di un alpinismo esplorativo, cercava nelle Dolomiti ormai quasi totalmente conquistate, nuove vette da raggiungere ed arrampicare. Fu sua, per esempio, la prima ascensione al Sasso di Toanella, che allora fu chiamato Campanile di Innerkofler. Il motivo? Lo scrisse Jeanne stessa nel biglietto che vi lasciò in cima: “Il 21 luglio 1893 feci la prima ascensione di questa vetta. La quale appunto chiamerò, visto poi che sia senza nome, Campanile di Innerkofler, in onore della brava giovane guida [il già citato Sepp, ndr] che ne tentò la salita. Ho battezzato la punta con vino di Asti, ed invito i Signori Alpinisti di seguire i miei passi. Viva l’Italia e l’Olanda”. A Jeanne Immink si devono inoltre le prime salite invernali – prima donna in assoluto a cimentarsi in tali imprese – di moltissime cime: la Croda da Lago, il Becco di Mezzodì e il Monte Averau sono soltanto alcune di esse.
Inventò la prima imbracatura da arrampicata
Visionaria sin nel midollo, Jeanne fu anche capace di precorrere i tempi per quanto riguarda l’utilizzo di nuove attrezzature. È considerata l’inventrice dell’imbracatura: una rudimentale cintura arricchita con anelli in metallo dove far passare la corda, per evitare attriti e facilitare le manovre. Indossava, a tale scopo, pantaloni da uomo, rompendo per prima le convenzioni e cambiando così l’immagine tradizionale della donna alpinista di fine secolo. Considerava importante proteggersi la testa con un cappello da equitazione, antesignano degli odierni caschi, e rispondeva alle critiche con arguzia. “Siccome noi ginnaste alpine, dopo una scalata difficile, siamo spesso oggetto di maldicenze, vorrei soltanto osservare di non essere mai stata issata in nessun punto come uno zaino attaccato alla corda”, scrisse in risposta a chi le imputava di essersi fatta parancare durante l’ascesa alla nord della Piccola.
Uno dei suoi pochi ritratti è la fotografia che le scattò – sempre sulla Piccola e durante la salita nell’aereo ed esposto Camino Zsigmondy – Theodor Wundt, alpinista e fotografo tedesco. “Ingenuamente mi ero fidata di lui. – scrive la Immink, raccontando di quegli scatti – Mi aveva invitata ad un’ascensione in montagna e che cos’è stata? Dodici ore ininterrotte di fotografie. Durante queste operazioni per poco non capitò un incidente. Proprio nel punto più difficile non riuscivo ad accontentarlo. Voleva che portassi il piede destro più di lato, ancora di più, ancora di più. Ma improvvisamente tutto il masso su cui mi trovavo si staccò, precipitando giù con fracasso. Rimasi appesa sul vuoto. Ricevetti un forte strappo. Pietro (Dimai, ndr) trattenne bene la corda e così… il fotografamento poté ricominciare. Siate certi che in vita mia non mi lascerò mai più fotografare!”
Promessa mantenuta, purtroppo. Chiusa la parentesi alpinistica, Jeanne decise di stabilirsi con il figlio a Milano, dove Louis si laureò in giurisprudenza ed intraprese una proficua carriera che culminò con l’incarico di console olandese presso la città meneghina, nel 1933. Jeanne, allora, era già morta da quattro anni. Di lei rimangono, nascoste, imprese da capogiro e, in bella vista, due cime che portano il suo nome.




