Disarrampicare: l’arte dimenticata della discesa
Scendere da una vetta richiede attenzione, tecnica e consapevolezza. Perché la cima non è mai il punto di arrivo. Dalla rigida etica di Paul Preuss alle sfide degli “stolbisti” in Siberia
Gran parte dei racconti alpinistici si concentrano sulla salita. Tutto ruota attorno alla vetta, al momento dell’ascesa, al trionfo verticale. Raramente la discesa compare come parametro di valutazione, eppure è lì che spesso si gioca la vera sfida. Chissà perché l’attenzione si focalizza solo sulla salita, come se la discesa contasse meno, come se la montagna finisse in vetta, e non al punto di partenza.
La realtà la discesa è altrettanto impegnativa, altrettanto densa di pericoli. Richiede lucidità, tecnica, gestione.
Scendere con la stessa perizia con cui si è saliti dovrebbe essere un criterio fondamentale di ogni alpinista.
Disarrampicare, ovvero discendere con consapevolezza
E proprio da questa consapevolezza nasce una pratica quasi dimenticata, eppure antichissima: disarrampicare. Non si tratta semplicemente di “scendere”, ma farlo con le proprie forze, lungo lo stesso percorso della salita, con la stessa attenzione, lo stesso rispetto e la stessa presenza mentale dell’andare verso l’alto.
La discesa autonoma non è solo un esercizio di tecnica raffinata – equilibrio, gestione della fatica, lettura precisa del terreno – ma è soprattutto un atto di maturità alpinistica. Un modo per dire: “Sono qui, davvero, e so tornare indietro”.
Paul Preuss: l’etica del ritorno
Tra i grandi interpreti di questa visione c’è Paul Preuss, figura luminosa dell’alpinismo classico. Preuss sosteneva che si dovessero affrontare solo vie che si è in grado di percorrere anche in discesa, nessun chiodo, nessuna corda, solo il corpo, la mente e la roccia.
La disarrampicata, per lui, era un metro di giudizio della competenza e della coerenza dell’alpinista. Un gesto che imponeva rigore, responsabilità e misura, che aiuta ancora oggi ad interrogarsi su che tipo di rapporto vogliamo costruire con la montagna e se siamo disposti a rinunciare a una via che non possiamo scendere solo con le nostre forze.
Jim Reynolds e la solitudine del gesto
Un secolo dopo, qualcuno ha saputo incarnare quello stesso spirito: nel 2019 Jim Reynolds ha scalato e disceso in solitaria, senza corde né protezioni, la via Afanassieff sul Fitz Roy, in Patagonia, una parete difficile di oltre 1500 metri, affrontata in completa autonomia.
La sua scelta di disarrampicare integralmente la parete è stata un atto di coerenza assoluta, un’esperienza piena, radicale, profondamente “preussiana” che ha dimostrato che la vetta non è il fine, ma solo un passaggio.
Disarrampicare: una sfida anche in Siberia
Un esempio interessante di disarrampicata viene dalla Siberia, dove, nelle pareti rocciose della Riserva Naturale di Stolby, gli alpinisti praticano lo stolbizm, una forma di arrampicata in free solo che include sia la salita che la discesa, rigorosamente senza l’uso di corde o attrezzature.
Gli “stolbisti” affrontano strutture granitiche imponenti con una tecnica che esige una padronanza assoluta del corpo e una profonda conoscenza del terreno. La discesa, spesso ignorata o banalizzata altrove, qui è una sfida a sé, affrontata con equilibrio e controllo. In questa cultura verticale, la disarrampicata è parte integrante dell’esperienza: non si scende perché si deve, ma perché si può, forse perché si ha qualcosa da dire anche quando si torna alla base.
L’arte della discesa
Se l’arrampicata è una sfida fisica, mentale e tecnica, la discesa richiede intuito e predisposizione. Disarrampicare è una competenza che ogni alpinista dovrebbe coltivare con cura, significa scendere in modo attento, preciso, armonico, dove occorre valutare il terreno, ascoltare le proprie capacità, accordarsi al ritmo della montagna e non al desiderio di tornare in fretta.
Esercitarsi nella disarrampicata, su terreni facili e via via più complessi, aiuta a gestire i rischi, a migliorare la lucidità, ad affinare il controllo, ma soprattutto educa all’autonomia.
Perché la discesa non è la coda dell’ascensione, è il suo compimento ed è lì che l’alpinismo rivela se stesso, come gesto completo, responsabile, umano.