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Verso il Nuptse, Diario di Hervé Barmasse

KATHMANDU, Nepal — “Ieri da Kathmandu siamo saliti direttamente sino Namche Bazar, il paese con i tetti colorati. Durante il nostro cammino abbiamo incontrato pochi turisti (trekker o alpinisti che siano, che siamo). Il calo registrato è del 40% circa… Namche è molto cambiata nel corso degli anni, più moderna, più servizi, più confort e “lusso”. Un piccolo villaggio di contadini e pastori di montagna che si è lentamente trasformato per accogliere i visitatori che giungono da tutto il mondo. Lo ha fatto con intelligenza, mantenendo la sua identità e la sua cultura… Purtroppo conosco paesi di montagna in Italia che non hanno avuto la stessa lungimiranza…”.

L’ostinazione degli amici di etnia sherpa nel voler salvaguardare la propria lingua, cultura e terra è apprezzabile e grande. Posseggono una forza indentitaria potente e l’orgoglio, che la sorregge, a volte è perfino inquietante perché travalica in un che di superiorità che li contraddistingue. Non solo contadini, ma mercanti, energici e determinati, con una forte interazione spirituale con il mondo naturale e religioso buddhista, che dalla tradizione tibetana hanno trasferito in queste valli a sud del monte Everest.

A parte i tetti colorati, che non appartengono certamente alla loro cultura – i loro antenati li facevano rigorosamente di legno, di “scandole” direbbero i nostri amici delle valli lombarde -, vero è che dopo il terremoto sono stati i primi a tirarsi su le maniche e a darsi da fare indipendentemente dagli aiuti del governo centrale. Stanno riattivando i sistemi alberghieri di accoglienza e turistici.
Conta poi che le organizzazioni, che prima del terremoto lavoravano per lo sviluppo della regione e il benessere degli abitanti, continuino nell’opera gestendo al meglio alcune questioni che stavano diventando esse stesse drammatiche: ad esempio quella dell’immondizia e del mantenimento della pulizia nei villaggi e  lo smaltimento dei rifiuti,  avviato a Nanche con il supporto di EvK2CNR.

Il controllo della qualità delle fonti di approvvigionamento dell’acqua è fondamentale: a nulla serve imbottigliarla se è inquinata.  Va poi mantenuto un sempre maggiore rigore nel rilascio delle autorizzazioni edili dentro il Sagarmatha Nathional Park: Lobuche, l’ultimo villaggio (ora penultimo) verso il campo base dell’Everest, è un drammatico esempio. E il  Sagarmatha Pollution Control Committee (SPCC) deve diventare sempre più l’organismo, già lo è in buona misura, delle varie comunità locali per la migliore gestione della qualità dello sviluppo.

Ci sono ancora due questioni importanti in qualche modo evocate dalla critica di Hervé. La prima riguarda i giovani, che se ne sono andati, son partiti per studiare nelle città, spesso all’estero, impiegando per questo i risparmi delle loro famiglie. Ora c’è da sperare che tornino per far crescere il livello culturale, la qualità di gestione e di governo del loro territorio. Il terremoto può aver dato una motivazione in più e speriamo che almeno questo  sia accaduto e avvenga. La seconda questione riguarda quello che Hervé definisce il nuovo “lusso” di Namche Bazar. Non potevamo pensare che questo popolo potesse rimanere per il nostro piacere “esplorativo-fotografico” ed estraneo alla civiltà, anche se  talvolta abbiamo indugiato in questo pensiero ed ancor più negli atteggiamenti, trattandoli come “buoni selvaggi” e vergognandocene subito dopo. Namche si svilupperà ancora: i suoi abitanti vivono e studiano a Chamonix, New York, Ottawa e a Berlino. Non si capisce perché non dovrebbero avere bagni adeguati, sistemi di riscaldamento, acqua e servizi, educazione e sanità al pari del resto del mondo. Ma allora anche i tetti dovranno tornare di legno, l’immondizia continuare ad essere raccolta e smaltita e gli alpinisti dovranno mettersi nella zucca di pagare il giusto prezzo per i servizi che ricevono. Anche quelli sulle montagne.

Questo è l’ultimo tema. Le tensioni  tra sherpa e alpinisti, fino alle risse, prima del terremoto e al seguito dello stesso, hanno portato ad una nuova consapevolezza dei propri diritti alla sicurezza e tutela: i giovani sherpa che lavorano sulle montagne, molte volte non nati a Nanche o nei  villaggi del Khumbu, ma che vengono da più lontano, oggi vogliono più soldi, tutele, garanzie non solo per se stessi, ma anche per la collettività. Un esempio è l’aggressione ad alcuni alpinisti di qualche anno fa, la quale era motivata principalmente da una lite iniziata per il pagamento del “passaggio sulle corde fisse” sulla via normale dell’Everest: quei soldi non andavano solo ai singoli sherpa, ma anche all’SPCC per pagare la pulizia della valle intera.

Quella nepalese è una terra ferita, dalla violenza del sisma e dalla rapida evoluzione culturale e sociale, ma che gli sherpa e la gente delle montagne sapranno curare, mantenendo vive – ne siamo certi – le loro tradizioni, anche nella modernità.

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