Alpinismo

La fine dell’alpinismo come la fine della storia? Il parere di Gioachino Gobbi

Gioachino Gobbi
Gioachino Gobbi

COURMAYEUR, Aosta — “Non è colpa dei giovani se i vecchi hanno già riempito il vaso delle possibilità secondo una certa tecnica ed una certa etica; se vogliono la loro parte di gloria devono cambiare la tecnica e l’etica”. E’ arrivato nella nostra redazione anche il parere di Gioachino Gobbi, sulla questione dell’alpinismo fallito. Il patron di Grivel e discendente di una delle più celebri famiglie alpinistiche d’Italia, offre una nuova prospettiva da cui osservare la questione.

“Il politologo americano Francis Fukuyama, professore a Stanford, decreto’ nel 1992 la fine della storia con il saggio “La fine della storia e l’ultimo uomo” nel quale sosteneva che la democrazia liberale sarebbe stata il punto di arrivo dell’evoluzione socio-culturale del mondo. Con la caduta del muro di Berlino sembrò avere ragione. In realtà stava rispondendo a Marx che profetizzò: La storia finirà nel socialismo. Ambedue dovrebbero revisionare le loro affermazioni.

Questo mi viene in mente a leggere la discussione recentemente risorta sulla fine dell’alpinismo.
L’atteggiamento dell’uomo nei confronti delle montagne è cambiato molte volte nella storia, giacché le montagne non mutano,esse sono totalmente indifferenti all’intera evoluzione biologica della razza umana che sì e no riesce a rappresentare una frazione di secondo dell’era geologica della terra. Quando il mondo era l’Europa, cioè fino alla “scoperta” dell’America nel 1492, le Alpi erano il passaggio che univa il Sud al Nord del continente; erano un luogo frequentato, organizzato, con un’economia difficile ma non di povertà. Poi si tornò a guardare alle montagne come a barriere scomode e da rifuggire, fino all’illuminismo ed al romanticismo che le ammantarono di interesse scientifico, artistico ed estetico.

Infine cominciò la storia dell’alpinismo, che trae il suo nome proprio dalle Alpi, e di tutte le sue fasi esplorative, colonialistiche, sportive, nazionalistiche, revansciste e commerciali.
E di nuovo l’atteggiamento dell’uomo cambiò molte volte durante la pur breve storia del gioco verticale. Ogni volta che un “filone” si esauriva, bisognava inventarne uno nuovo, o meglio scoprirne uno nuovo perché le montagne non mutano secondo la nostra volontà e sono tali e quali da milioni di anni. Noi imparammo a “vedere” strutture e problemi che erano lì da sempre; avvenne per le creste, le pareti, i colatoi (goulottes), le cascate di ghiaccio effimere estive ed invernali; ma tutto esisteva già. Altre sono invenzioni tipicamente umane (le prime ripetizioni, le solitarie, le ripetizioni invernali, i concatenamenti) e che assumono validità in momenti specifici e topici: quando una nuova generazione ha bisogno di emergere, di farsi valere; ciò può avvenire solamente inventando nuovi obbiettivi e sviluppando le nuove strategie necessarie a conseguirli. Non è colpa dei giovani se i vecchi hanno già riempito il vaso delle possibilità secondo una certa tecnica ed una certa etica; se vogliono la loro parte di gloria devono cambiare la tecnica e l’etica.

Così avanza il mondo, anche quello piccolo e litigioso dell’alpinismo (o, come si diceva una volta, dell’arrampicamento). E avanza con i suoi ritmi e le sue pause. L’idea dell’evoluzione come progresso lineare dal più semplice al più complesso, è tipico della nostra cultura occidentale, ma non corrisponde necessariamente alla realtà che è fatta di successi e di insuccessi, di accelerazioni, di lunghe stasi, di ritorni, di creazione e di morte. In più può intervenire la contingenza (prima guerra mondiale sulle montagne), la necessità (i cambiamenti climatici come quelli che stiamo probabilmente vivendo) e certamente non ultimo il Caso (che dai moderni studi fisici e matematici sembra intervenire assai più frequentemente di quanto noi possiamo realizzare).

L’avanzamento secondo le direttrici attuali sembra portare a quello che nel metodo scientifico si definisce come “dilatazione orizzontale dei problemi”; si aggiungono cerchi più ampi attraverso una maggiore analisi ed una maggior definizione dei problemi stessi (aumentando proporzionalmente il numero delle domande e delle risposte) ma si rimane sempre sullo stesso piano; il disco è piatto, aumenta il diametro ma non si passa ad altre dimensioni. Ora è chiaro che una dilatazione continua perde totalmente di interesse poiché nessuno, o molto pochi., potranno raggiungere il bordo sempre più lontano, sempre più difficile da vedere se non si dedica la propria esistenza a questo scopo. E’ solo più una questione di velocità e prestazioni estremizzate spinte avanti per creare un “di più” che non esiste e che deve essere inventato per poterne parlare. Ma quanti potranno mai capire cosa è un 9b+, o un M12? L’orizzonte si fa sempre più lontano ed oltre una certa distanza nessuno è più in grado di vedere.

Bisogna quindi cercare di passare ad una evoluzione anche verticale dove i pesi e gli scopi abbiano una risposta più evoluta; e questo si ottiene solamente aggiungendo altre “dimensioni” al ragionamento; aggiungiamo delle dimensioni verticali che non allargano più il disco ma gli danno una tridimensionalità più compatta, più facile da capire e da seguire, più adatta a guardare lontano. Non dimenticando le dimensioni sportive e tecniche che seguiranno il loro naturale cammino nel continuo rincorrersi di nuova tecnica che richiede nuovi strumenti e di nuovi strumenti che spostano in avanti i limiti.

Come sempre non è l’alpinismo che deve cambiare, ma l’alpinista.
Il suo futuro è di essere consapevole di quello che fa, di essere interessato agli altri aspetti della realtà che lo circonda che non sono solo le difficoltà della parete ed il tempo di percorrenza.
Deve cominciare ad interrogarsi sul senso morale di ciò che fa e di come lo fa.
Deve cominciare ad interrogarsi sulla compatibilità ambientale dei propri divertimenti.
Dovrà cominciare a valutare la compatibilità culturale dei suoi viaggi e delle sue spedizioni.

E se vogliamo andare più avanti possiamo anche controllare che i soldi che spendiamo in montagna siano stati guadagnati onestamente, che il nostro comportamento, oltre che serio, non consideri solo la nostra ambizione ma si ricordi anche degli altri.
Così l’Alpinismo certamente non finirà”.

Gioachino Gobbi

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3 Commenti

  1. io direi che bisogna anche cominciare a interrogarsi su quanti morti ci sono in montagna ogni anno e perché, e su cosa fare per impedirlo, anche a livello legale e penale.
    Invece soprattutto grazie ai media, il rischio “estremo” è sempre più esaltato, amplificandone l’emulazione.

  2. l’evoluzione geologica non è poi così impercettibile..i frequenti crolli mutano le vie di salita .Poi basterebbe divulgare meno ed invece è un proliferare di relazioni dettagliatissime…con cronometraggi,premi, festival , fiere dell’attrezzo e dell’abbigliamento ..che tolgono troppo al” fascino di lontaggi di ventura che ancora ci arridono dai monti azzurri”( Dino Campana)

  3. Caro Gioacchino,
    grazie per l’analisi, a mio riguardo, l’unica finora intelligente ed esatta della situazione
    dell’alpinismo attuale. I tempi cambiano da sempre, piu’ che mai nel nostro mondo moderno e
    una simile analisi vale per ogni campo di attivita’. L’indole umana induce a voler superare limiti gia’ raggiunti da altri ed e’ questo che ci ha resi nel corso dell’evoluzione esseri intelligenti e coscienti della propria esistenza. Mai Colombo e Magellano avrebbero
    pensato che un giorno un’adolescente avrebbe attravversato gli oceani con un veliero di pochi
    metri. In fondo, gli alpinisti oggi tradizionali hanno voluto anche loro superare limiti gia’ raggiunti da altri e hanno dovuto ‘inventare’ nuovi obbiettivi. L’alpinismo e’ tutt’altro che finito, sta solo prendendo altre direzioni, credo pero’ senza abbandonare quella tradizionale. Ci sono eccessi criticabili anche nell’alpinismo, come infine dappertutto, ma e’ anche una forma di progresso, che a noi non piace ma che, qualunque sia, non lo frena e non lo arresta nessuno.

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