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I fatti, le montagne e l’implacabile incedere del tempo

BERGAMO — Ci sono giorni in cui ti senti come proiettato nel meccanismo di un orologio, nel cuore del tempo che corre.

Ieri ho festeggiato i vent’anni di Francesca, mia figlia, invitandola a cena come si invita una donna adulta. Con l’orgoglio di padre nel cuore, osservando con tenerezza quei gesti delle mani e le espressioni del viso che tanto mi ricordano sua madre.

Prima di uscire di casa, al telegiornale, ho appreso che Benazir Bhutto era stata assassinata nel pomeriggio. Ho un legame antico e profondo con il Pakistan. Non solo per il Karakorum e il K2 ma per la gente, le amicizie, il lavoro. Da cinque mesi dieci ragazzi pakistani sono a Bergamo per diventare bravi tagliatori di gemme colorate. Sono ospiti della mia organizzazione. Ci siamo conosciuti e stiamo costruendo un’amicizia e una speranza di lavoro per loro e per molti altri pakistani delle regioni del Nord. Ci sono poi i miei portatori, la gente dell’Aga Khan Trust, quelli del Wwf, c’è Riaz che ormai lavora con noi da tempo, e l’ospedalino di Askole dedicato a Lorenzo Mazzoleni che è lì da 10 anni.

La Bhutto era la speranza per il Pakistan. La possibilità di elezioni a gennaio e di un governo in grado di superare in maniera morbida la dittatura mulitare imposta dal presidente Musharraf pere fronteggiare, talvolta in modo ambiguo, il terrorismo talebano e le madrasse islamiche.

Il Pakistan è un grande paese e, non dimentichiamolo, una potenza atomica. Cosa accadrà ora non lo so. C’è solo da sperare che la situazione non degeneri nel caos più pericoloso dalla fine della Seconda guerra mondiale.

In Nepal il Re viene cacciato. Una tradizione monarchica termina dopo 500 anni. Ne ha dato notizia ieri il Corriere con unìampiezza insolita per un piccolo paese dell’Asia, ai margini della politica internazionale. E’ un mutamento radicale di visione che nell’immaginario collettivo è quella della spiritualità dei monasteri, dell’incenso e delle serena convivenza fra religioni e culture, dei trekking e delle spedizioni alpinistiche.

La mitica Kathmandu e l’Everest sono infatti icone di una nazione e di un popolo che invece qualche problema grave di povertà, sviluppo e ingiustizia lo ha sempre avuto. Il monarca se ne va e arriva un parlamento che spero fattio di partiti e dalle persone di buonsenso che negli anni ho conosciuto come rappresentanti del popolo nepalese, parlamentari che una monarchia costituzionale incompiuta ha sempre relegato al ruolo di esecutori del proprio volere.

Insieme a un migliaio di persone ieri ho accompagnato il "Camòs" da casa sua alla parrocchiale e poi al cimitero di Sa Pellegrino. C’era tanta gente comune. E questo mi ha impressionato più della pattuglia di alpinisti più o meno noti che hanno voluto rendergli omaggio. Inquieta, mi sembra un aggettivo al quale anche lui si sarebbe ribellato da quella schietta e talvolta brutale personalità quel era nell’esprimere giudizi. Ma con doti impareggiabili di arrampicatore e con qualità umane che quando espresse erano il contraltare di quella inquietudine a lungo covata.

Il selvatico "Camòs" se n’è andato imprevedibilmente com’è vissuto, lasciando stupiti ancora una volta, accompagnato dall’affetto della sua gente. Era un grande, uno di loro, e come tale lo hanno riconosciuto. Bravo Simone Moro che ha lasciato il soggiorno a Kalymnos, in Grecia, da dove era in procinto di partire verso il Broad Peak, per tornare a Bergamo e rendere l’estremo saluto all’amico. Un gesto che vale più di una grande salita.

Questo 27 dicembre è stato un giorno pieno di implicazione, complesso come gli ingranaggi ei bilancieri di un orologio che, implacabilmente, segna il tempo.

ADP

 

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