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Cave: un’antica attività umana che dà lavoro alle persone. Il punto di vista di un professionista

Cava in Valmalenco località Valbrutta (Foto Matteo Crottogini)
Cava in Valmalenco località Valbrutta (Foto Matteo Crottogini)

SONDRIO – Quella estrattiva è un’antica attività umana, caposaldo del settore edilizio ed industriale, privato e pubblico. Una nuova sensibilità ambientale unita alla volontà di incentivare le potenzialità turistiche delle montagne, portano oggi a rinnovate riflessioni sul tema. Tema che stiamo analizzando in questi giorni in occasione del dibattito emerso sul fronte delle Alpi Apuane e che abbiamo esteso poi al caso della Valtellina. Questa volta abbiamo voluto conoscere il punto di vista su cave e miniere di un professionista del settore minerario, Matteo Crottogini, che si occupa di valutazione di risorse e aspetti ambientali.

Matteo, innanzitutto perché si aprono nuove cave?
Bella domanda! Cave e miniere hanno una propria vita la cui durata dipende dal volume dalla quantità di roccia o minerale disponibili (risorse) e quindi dalle caratteristiche qualitative e dal valore economico attribuito a ciò che se ne vuole estrarre (riserve). A monte di tutto questo, il motore primario è il fabbisogno della materia prima dettato dal mercato. In cosa consista esattamente la ‘domanda’ è un concetto che forse sfugge. Se per i materiali lapidei, intesi in senso merceologico come marmi e graniti, è abbastanza ovvio immaginare il loro impiego in edilizia e opere civili, per i minerali industriali i settori di applicazione sono estremamente vari e coinvolgono materiali oggetti di consumo più disparati che impieghiamo nella vita di tutti i giorni probabilmente senza neanche accorgerci. Ceramiche, vetro, materie plastiche, carta etc. sono infatti costituite completamente o in parte da sostanze minerali trasformate attraverso processi di sintesi, fusione o semplice riduzione meccanica e polverizzazione. L’Italia, fino alla fine del secolo scorso vantava un primato per la produzione ed esportazione di lapidei nel mondo davanti ai nuovi giganti quali Brasile, Cina e India. Negli ultimi anni, complice la globalizzazione, nel mercato delle materie prime si sono infatti affacciati i paesi in via di sviluppo, in grado di produrre a prezzi più convenienti. Questo fenomeno è andato a scapito delle attività locali che hanno quindi sofferto della competitività dei materiali di oltreoceano. A seguito degli stravolgimenti economici e finanziari degli ultimi anni, nonché della crescente consapevolezza ambientale, i costi delle materie prime provenienti dai paesi emergenti hanno tuttavia subito delle drastiche variazioni di prezzo che hanno spesso portato a riconsiderare l’attività estrattiva sul territorio locale. Si aprono quindi nuove cave per ovvii motivi quali l’esaurimento delle risorse già in coltivazione e per il mutare delle valore delle riserve ma anche per dare continuità ad una tradizione secolare che ha da sempre interessato il territorio nazionale. È chiaro che l’apertura di un nuovo sito estrattivo comporta spesso la sottrazione di aree vergini al territorio. Tuttavia, nel settore è sempre più forte la consapevolezza ambientale e l’utilizzo responsabile delle risorse è promosso a livello internazionale dai cartelli di settore. L’ottenimento di una nuova concessione mineraria o il suo rinnovo sono pratiche comunque regolamentate che prevedono la procedura di Valutazione di Impatto Ambientale.

Se le cave si esauriscono non c’è il pericolo di fare una groviera? Come si gestisce questo rischio con lungimiranza?
È una domanda sicuramente complessa soprattutto se si pensa ad un passato in cui le risorse minerarie venivano letteralmente predate senza nessuna forma di compensazione ambientale o riguardo per le altri parti interessate e le future generazioni. La tendenza osservabile oggi, peraltro un po’ in tutto il settore estrattivo, è quella creare siti produttivi più moderni e di dimensioni maggiori dove possono essere adottate le moderne tecnologie ottimizzando i costi di gestione e lavorazione e rendendo possibile un migliore controllo degli impatti sull’ambiente e sul territorio. Oggigiorno, un piano di coltivazione prevede anche le misure tecniche necessarie a mantenere gli equilibri preesistenti nonché le attività di ripristino. Operando uno scavo si va certamente a modificare l’assetto geomeccanico di un ammasso roccioso accelerando i naturali processi di degrado lo contraddistinguono. Sono altrettanto note diverse tecniche di rinforzo e ripienamento che permettono di contenere gli effetti negativi. A titolo di esempio, fino a non molti anni fa’, le gallerie inutilizzate venivano abbandonate e lasciate al loro naturale destino. Oggi i vuoti minerari vengono spesso ripienati con materiali di risulta (materiali sterili ed inerti di cava) per garantire il mantenimento delle condizioni di equilibrio della roccia. Sempre in passato, le concessioni minerarie ed permessi venivano rilasciati a società che per dimensioni ed organizzazione non erano in grado di accollarsi i costi di gestione ambientale oltre ovviamente a quelli economici. Oggi, le società che sopravvivono nel settore devono ringraziare le loro scelte strategiche di conversione e ottimizzazione dei processi, intraprese centralizzando e rimodernando cantieri e servizi esistenti nonché migliorando la programmazione anziché andare alla cieca ad interessare nuove porzioni di territorio in maniera dispersiva.

Perciò la cosa migliore da fare sarebbe cercare di sfruttare le cave esistenti finché sono produttive?
Come accennavo prima, cave e miniere hanno una vita propria e una durata. E’ sicuramente una scelta molto responsabile quella di ottimizzare i processi laddove già esistono, senza andare a interessare aree vergini con la necessità di realizzare nuove infrastrutture e portare nuovi servizi. Meno cave ma anche cave sempre più grandi significa poter disporre più facilmente di una serie di servizi e macchinari che riducono i costi di lavorazione e permettono di controllare gli impatti (scarichi, emissioni, produzioni di rifiuti industriali etc.).

Quindi la Valmalenco in effetti ha una storia infelice da questo punto di vista..
In Valmalenco così come sulle Apuane il fenomeno è parossistico ma non lo chiamerei necessariamente infelice almeno per chi ne ha tratto forti vantaggi socioeconomici. Si parla spesso del beneficio di pochi a scapito del territorio ma spesso si ignorano le cifre dell’indotto. Per quanto riguarda la Valmalenco è forse infelice lo sviluppo complessivo del territorio, ciascuno si prenda le sue colpe. Per l’ambito estrattivo, abbiamo sicuramente ereditato gli errori delle passate amministrazioni e gestioni che operavano secondo un’ottica di mero profitto e con tattiche al limite della pirateria.

Quali sono le verifiche preliminari al lavoro estrattivo?
L’inizio di una nuova attività estrattiva è un processo molto delicato che passa attraverso fasi preliminari comprendenti gli studi di fattibilità e di impatto ambientale. L’ottenimento di una nuova concessione mineraria o il suo rinnovo sono pratiche regolamentate che prevedono la procedura di Valutazione di Impatto Ambientale (VIA). La Valutazione di Impatto Ambientale è una procedura introdotta nella comunità europea a partire dal 1985 (Direttiva Comunitaria 85/337/CEE), al momento la direttiva vigente è la nuovissima 2014/52UE. In Italia è recepita sia a livello nazionale dal D.Lgs. 152/2006 (testo unico ambiente) e a livello regionale. La procedura è abbastanza complessa e prevede la definizione di una progettazione dei cantieri e di piano industriale a lungo termine, e della valutazione appunto degli impatti derivanti sulle diverse componenti interessate quali suolo, acqua, atmosfera e società. Per ogni impatto riscontrato devono essere proposte ed attuate misure di mitigazione efficaci. La VIA procede quindi attraverso momenti di confronto con le amministrazioni e le parti interessate mediante assemblee pubbliche e conferenze dei servizi fino all’approvazione del progetto.

Carriere de L'Arriege Trimouns, un'area di miniera ripristinata nei Pirenei (Foto Matteo Crottogini)
Carriere de L’Arriege Trimouns, un’area di miniera ripristinata nei Pirenei (Foto Matteo Crottogini)

La tua esperienza diretta non riguarda solo l’Italia, ma anche l’estero, per esempio l’Australia. Come viene vissuto lì il problema?
In tutti i paesi in cui ho avuto l’occasione di confrontarmi in campo professionale ho notato che viene data più importanza alle risorse minerarie ed alla loro valorizzazione rispetto all’Italia. Nel nostro paese nell’immaginario comune e secondo l’opinione pubblica un giacimento, rappresenta prevalentemente una fonte di ricchezza per il paese e la sua economia nonché un’opportunità. In Italia, diversamente dagli altri paesi, quando si immagina una miniera è più facile che si pensi a un qualcosa di necessariamente pericoloso se non ad un museo dove simpatici omini più simili ai nanetti di Biancaneve scolpiscono la roccia a colpi di piccone e spingono pesanti carrelli. In Australia, dove la cultura dell’ambiente e del rispetto del territorio sono fortemente radicate, è paradossale pensare che l’economia è fondata quasi esclusivamente sulle attività minerarie. Le leggi in vigore sono abbastanza simili a quelle europee per contenuti e ambiti considerati. Le pubbliche amministrazioni e gli organi di vigilanza sono sicuramente più trasparenti, più disponibili ma soprattutto più reattivi e capaci di tagliare i cosiddetti ‘tempi tecnici’ che nel nostro paese bloccano numerosi progetti. Ciò che mi ha impressionato più positivamente è la disponibilità di linee guida chiare ed esaustive per tutti gli aspetti tecnici e per i processi autorizzativi, dal piano estrattivo stesso a quello di chiusura e riabilitazione dei siti disturbati. I tempi di risposta sono quasi immediati mentre in Europa oggigiorno per l’approvazione di un progetto che richiede una VIA sono necessari diversi anni.

Cosa pensi riguardo al problema della deturpazione del paesaggio
Che è un concetto molto soggettivo anche se non vorrei essere frainteso visto che si applica ad un contesto molto ampio di opere non necessariamente del solo settore estrattivo ma anche di quello turistico. Un qualsiasi scavo rappresenta sicuramente un squilibrio di un assetto paesaggistico preesistente e comporta un impatto visivo la cui valutazione è talora sottostimata e talora sopravvalutata. Tecnicamente parlando, per la valutazione dell’impatto visivo, sono disponibili numerosi strumenti di valutazione che impiegano per lo più tecniche fotografiche nel tentativo di fornire criteri oggettivi. Qualora questi strumenti non sono impiegati in maniera corretta possono portare a valutazioni fortemente soggettive. Esistono comunque dei dispositivi di tutela paesaggistico ambientali attuati dalle pubbliche amministrazioni che sono riassunti nel quadro vincolistico di un determinato territorio e comprendono le aree soggette a vincolo idrogeologico, i siti di importanza comunitaria (SIC), le aree protette le fasce di rispetto etc. e definiscono la sensibilità dell’ambiente ricettore della modificazione che uno scavo o una costruzione comporta e pongono appunto vincoli alla sua realizzazione. Agli strumenti di valutazione si aggiungono inoltre le misure di mitigazione che possono essere le più disparate, dalla rimodellazione del paesaggio, alla piantumazione o addirittura alla colorazione dei fronti di scavo tanto in voga in una famosa cava del Triangolo Lariano che saltava all’occhio di chi si trovava a percorrere la SS36 da Milano in direzione Lecco. Togliendo la veste di tecnico, sono comunque il primo a sostenere che qualsiasi modificazione del paesaggio conseguente a un opera mi disturba entro una certa misura, vuoi perché non c’era prima o perché il contrasto visivo ed estetico sono troppo alti per non essere notati. Trovo infine necessaria una riflessione su quelle aree storicamente interessate da attività estrattive dove le strutture rappresentano ormai una parte integrante del paesaggio se non addirittura del patrimonio storico e culturale ed è quindi auspicabile che si giunga ad un compromesso.

Molti sostengono che questo compromesso in realtà non si trovi, e che le cave portino lavoro da un lato ma lo tolgano dall’altro, nel settore turistico per esempio…
Cave e miniere portano occupazione a molte persone. Chiaro però, non si può parlare solo dell’aspetto economico e l’attività estrattiva non si può valutare solo in termini di fatturato e di indotto. Sicuramente un’attività turistica su un territorio porta benefici molto diversi: se il turismo fosse così forte da imporsi in modo esclusivo, allora avrebbe meno senso avere interferenze e sovrapposizioni anche se al mondo ci sono numerosi esempi di convivenza (mi viene in mente la miniera di tungsteno a Mittersill in Austria, che si sviluppa in sottosuolo interamente in un parco nazionale). Qualora si optasse per un’economia completamente fondata sul turismo allora non si vedrebbero più i camion di cava e di miniera che congestionano il traffico, perdono polveri e frammenti sulle strade facendo arrabbiare le popolazioni locali. Ma non è detto che un territorio che vive al 100% di turismo non si trovi poi un giorno a dover affrontare altri problemi ambientali, come può essere la viabilità congestionata dal traffico del fine settimana. Le Alpi costituiscono la regione geografica a maggiore vocazione turistica del mondo per visitatori e presenze. Il turismo alpino ha sempre avuto un carattere fortemente stagionale, centrato prevalentemente nei mesi estivi ed invernali. In questi periodi infatti la popolazione delle Alpi cresce fino a triplicare, ma siamo sicuri che la rete fognaria ed i servizi di smaltimento rifiuti siano adeguati alle necessità?

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Un commento

  1. Argomentazioni chiare e complete.
    Il punto è che oggigiorno le leggi ci sono e sono tendenzialmente equilibrate. I problemi sono la loro interpretazione e il controllo della loro corretta attuazione.
    Ci vorrebbero più buon senso e attenzione. In tutte le cose.

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