L’Everest e gli sherpa, è giunto il tempo della resa dei conti
BERGAMO — I cambiamenti epocali dentro i sistemi socio-economici, siano essi grandi come gli Stati o limitati a categorie professionali fortemente caratterizzate come quella dei lavoratori dell’alta montagna della valle dell’Everest, spesso avvengono per fatti traumatici se non violenti. É quello che é accaduto e sta avvenendo in questi giorni in Nepal.
Sono 20 anni che attorno all’Everest si consuma una storia folle, i cui unici protagonisti di buon senso sembrano essere per l’appunto gli sherpa, i lavoratori stagionali che in primavera e autunno sono impegnati ad attrezzare la via di salita alla vetta, accompagnare, accudire, sospingere , trascinare, alimentare, ossigenare e talvolta portare a pisciare, anche questo accade , i loro sahib ricchi e vanagloriosi. Perché di questo da vent’anni si tratta.
Di alpinisti, lì se n’é visti ben pochi a esercitarsi in attività che avessero una qualche attinenza con quello che Cassin, Bonatti, Terray, Hillary, Diemberger o Messner ci hanno insegnato riguardo all’alpinismo, alle motivazioni, allo spirito, ai valori. Unico valore di questi ultimi emuli è il poter dire e raccontare di esser arrivati sulla vetta dell’Everest, anche se va riconosciuto, oltre che con il portafoglio anche con fatica e sacrificio, nonostante l’aiutone degli sherpa. Ma si tratta, in particolare per l’Everest, di turismo, di “industrializzazione” di un’attività ludico-sportiva. Che però, nella componente diritti dei lavoratori, tutela dell’ ambiente, partecipazione socio economica allo sviluppo locale ( tasse e loro utilizzo), etica, é stata gestita da parte dei “clienti-alpinisti” con metodi medioevali, dal sapore fortemente neocolonialistico.
Anche nell’informazione c’é qualche pecca, ad esempio non si è parlato in questi giorni del Sagarmatha Pollution Control Commitee, SPCC, che é una associazione privata riconosciuta dal Governo Nepalese e dalle autorità della valle del Khumbu, quella che porta all’Everest. É l’organizzazione che tiene pulita la valle. Installano punti di raccolta dell’immondizia lungo i sentieri e nei villaggi, la differenziano , la trasportano in luoghi di smaltimento, ultimamente a Namche Bazar, villaggione capitale della valle. Li, con EvK2CNR ed Ecohimal, una ONG austrica nepalese, é stato installato un impianto di raccolta, differenziazione, combustione per parecchie tonnellate di immondizia prodotte annualmente dall’industria del turismo. Ma SPCC per fare tutto questo, oltre a ricevere “doni ” da organizzazioni come EVK2CNR e Ecohimal, raccoglie i soldi attrezzando la prima parte della salita dell’Everest , mantenendola percorribile per tutta la stagione turistico- alpinistica. Si, proprio quella parte dove i giorni scorsi sono morti i 16 lavoratori della montagna.
Ognuno di loro avrebbe lasciato una parte importante del suo salario in favore del SPCC, della qualità dell’ambiente e della vita loro e dei loro ospiti. La morte di questi lavoratori oltre che dolorosa rischia di essere anche odiosamente mal raccontata.
Non é una rivolta la loro, ma la richiesta di diritti per le loro famiglie per la qualità della vita in quelle valli. Basta pensare che il futuro delle famiglie degli sherpa deceduti sul lavoro é stato finora lasciato al buon cuore di associazioni come Himalayan Trust , fondata da Hillary o alla Fondazione Benoit Chamoux, che ho l’onore di presiedere, e che negli ultimi anni ha investito decine di migliaia di euro nell’educazione degli orfani.
Ora gli sherpa chiedono alle istituzioni un formale e legale riconoscimento dei rischi del loro lavoro e tutele. Non mi piace, per nulla, l’alpinismo delle spedizioni commerciali. Riduce splendide montagne a dei Luna Park, toglie loro l’anima che secoli di storia e cultura aveva ad esse affidata. E mi ha sempre stupito che alpinisti di fama e ideologia sociale, lo abbiano usato e avvallato.
Ora é però giunto il tempo della resa dei conti. Gli sherpa vogliono tutele, coperture dei rischi per sé, per le loro famiglie, per la loro valle e società. Tutto questo avrà un costo per i turisti e per gli alpinisti, anche per lo stato nepalese, che non potrà più incassare royalties dal turismo senza nulla dare in cambio alla popolazione sherpa.
Anche se questo non eviterà di certo la caduta di seracchi o le valanghe e la morte di altri lavoratori o clienti. Il rischio montagna da quelle parti rimane elevatissimo. Metterà però ordine e diritto in un mestiere che é il cuore dello sviluppo turistico di una valle. Speriamo.
Da Polenza sempre breve, chiaro, pungente. Ancora una volta credo proprio che abbia ragione, indubbiamente lui conosce bene il contesto.
Non commento. Dico solo che la libertà di opinione va sempre rispettata, nel bene e nel male. Dico anche che auspicare un alpinismo più vero, nel rispetto dell’ambiente e delle persone, dovrebbe essere cosa ovvia. Invece occorrono dei sacrifici prima che le coscienze si smuovano.
Non importa se l’Everest resterà solo un sogno per molti, per quei pochi che ci riusciranno sarà evidentemente meritato.
Assolutamente d’accordo con Da Polenza.
L’Alpinismo è altra cosa.