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Intervista a Simone Moro: resto in Nepal, neppure con una coltellata riesco ad odiarli

CAMPO BASE DELL’EVEREST, Nepal – “Probabilmente non hanno picchiato noi, ma gli occidentali. Le teste calde ci sono ovunque. Ho ricevuto tanto da questa gente, neppure con una coltellata riesco ad odiarli e in questi giorni qui è una continua processione di chi viene a chiedere scusa”. Queste le riflessioni a mente fredda di Simone Moro, rimasto coinvolto nei giorni scorsi in un’incredibile rissa avvenuta ai campi alti della via normale all’Everest. La spedizione alpinistica è chiusa; Ueli Steck e Jon Griffith sono già volati via, ma l’alpinista italiano rimane in Nepal a lavorare come pilota di elisoccorso con il suo elicottero che ha portato appositamente a Kathmandu per compiere soccorsi in Himalaya. Ecco perché.

Simone qual è la situazione questa mattina?
Ueli e Jon sono andati via dal campo base dell’Everest. È venuto a prenderli Maurizio Folini, che è appena arrivato a sostituire l’altro pilota e ha preso il primo volo. Io resto qui ancora un giorno a impacchettare le cose e a parlare con alcune persone.

Come è andato “l’armistizio”?
In teoria avremmo dovuto fare come si farebbe in qualsiasi altro paese del mondo: denunciare gli aggressori e lasciarli pagare le conseguenze di quello che hanno fatto. Non si discute neanche su quel che è successo in montagna, ma secondo noi è stata come la goccia che ha fatto traboccare il vaso, perché non c’è stato un motivo per provocarlo. Anche rispetto al presunto blocco di ghiaccio che avremmo fatto cadere e che avrebbe ferito uno sherpa: ieri quello stesso sherpa ha dichiarato di essersi ferito da solo scivolando mentre stava jumarando e ha picchiato il naso sul ghiaccio. Da un diverbio verbale, tra l’altro neanche tanto acceso, è venuto fuori di tutto. Loro hanno capito che la notizia avrebbe fatto il giro del mondo e che era una cosa gravissima, perchè niente avrebbe potuto giustificare la spedizione punitiva che hanno messo in piedi a campo 2, raccontando chissà che cosa agli altri sherpa, facendo scattare probabilmente una logica di branco. Personalmente ho deciso di andare nelle loro tende al campo base, di stringere la mano e dire loro che avevano fatto una cavolata. E poi l’ho rifatto anche in forma pubblica all’assemblea. I problemi nei rapporti tra occidentali e sherpa richiedono un lungo processo per essere risolti. Io ho voluto dare un esempio forte: non eravamo tenuti a farlo, ma non volevamo aggiungere rancore a rancore, dare adito a nuovo risentimento. Questo da parte mia è un gesto iniziale, ma adesso bisogna che si lavori per cambiare la situazione.

Quindi secondo te cosa ha provocato quanto è successo?
Probabilmente alcuni sherpa hanno capito che questo business è grande e vorrebbero tenerselo tutto per loro. Gente come me e Ueli che scala senza sherpa e corda fisse non li fa felice. In più quando eravamo a campo 3 ci siamo anche offerti di aiutarli, abbiamo messo 260 metri di corde fisse, quindi quando siamo arrivati giù loro probabilmente non hanno picchiato noi, ma gli occidentali. Allora eravamo nel posto sbagliato al momento sbagliato. Perché noi avevamo il permesso di scalare la parete ovest del Lhotse e il permesso di salire mentre loro mettevano le corde fisse.

Quando è nata questa tensione tra occidentali e sherpa?
Questa situazione di tensione c’è sempre stata. Questa montagna alpinisticamente è nata 60 anni fa, ma il rapporto tra occidentali e nepalesi di oggi è completamente diverso da quello di allora. Ci sono persone che investono milioni di dollari per venire qui, milioni dico. Ci sono spedizioni che hanno instaurato un buon rapporto con gli sherpa ed altre che li trattano un po’ come animali da soma, o che li trattano anche bene ma che non sono molto inclini a ringraziarli a dovere, a spartire i successi. Allora magari alcuni sherpa, che guadagnano anche molto da questo lavoro, hanno cominciato a pensare che non è giusto nei loro confronti. Si è persa un po’ la lucidità nel capire che gli occidentali senza gli sherpa non scalano questa montagna, o almeno la maggior parte di loro, mentre gli sherpa hanno dimenticato che senza gli occidentali loro qui non hanno lavoro.

Come è stato incontrare quegli sherpa all’assemblea?
Erano persone diverse: erano mogi, con gli occhi lacrimanti, e non avevano più queste vene pulsanti di sangue. Potrà sembrare arrogante, ma, credimi, non ho avuto nessun tipo di problema a stringere loro la mano. Vogliamo tutti la pace, sventoliamo bandiere della pace dai balconi, ma farla poi è un’altra cosa.

Hai avuto paura a campo 2?
Per forza, bastava un niente per morire. Ce l’avevano anche detto che ci avrebbero fatti fuori, e abbiamo dovuto anche scendere da campo 2 a campo 1 lungo una via nuova perché avevamo paura di incontrare altri sherpa che avrebbero potuto lanciarci addosso le pietre. Comunque io so che qui ci sono tantissime brave persone, la stragrande maggioranza, sono 4 sherpa che hanno fomentato il tutto, non so cosa possano aver raccontato agli altri per aizzarli così. In questi giorni qui è una continua processione di gente che viene a chiedere scusa.

Eri mai finito in una rissa in vita tua?
Mai.

Avresti mai pensato di finirci a 6500-7000 metri?
No assolutamente. Quando li abbiamo visti venire contro di noi abbiamo subito iniziato a chiedere scusa, poi quando abbiamo visto Ueli che sanguinava dalla bocca abbiamo cercato di calmarli, non abbiamo mai reagito. Eravamo inginocchiati a prendere pugni e calci.

Cosa ti ha detto Denis Urubko?
Denis non è qui, perché dopo che ha fatto acclimatamento a 7000 metri non è stato bene ed è sceso dalla Valle dell’Everest, torna domani. Alexey Bolotov, il suo compagno, invece è qui che lo aspetta. Ed è stato quasi meglio che loro non ci fossero, perché conoscendoli, se fossero stati lì con noi avrebbero reagito a modo loro.

Come mai hai deciso di rimanere in Nepal a fare soccorso?
Sono venuto qui per cercare di dare una mano a questo Paese. Le teste calde ci sono ovunque. Io ho ricevuto tanto da questa gente, e neppure con una coltellata riesco ad odiarli. L’ultima cosa che voglio fare è la figura dello sbruffone e dell’intollerante. Proprio tra ieri e oggi ho portato via con il mio elicottero e gratis due sherpa che non stavano bene.

Questo episodio allora non ti ha fatto sentire tradito?
Si, un po’ sì. Però in queste ore tantissimi vengono a dirmi “Simone dai”, che vuol dire fratello. Mi chiedono scusa, mi dicono che non sono tutti così, e mi ringraziano per quello che sto facendo per loro. Non mi faccio guastare l’umore dalle mele marce. Io sono capace di voltare pagina, ma temo che Ueli non torni più.

Infatti, non ritornerete?
Io e Ueli ci siamo trovati molto bene, come fratelli, e anche fisicamente in perfetta sintonia. Stiamo già parlando di fare altre cose insieme, magari in Alaska o in Patagonia, ma non credo in Nepal. Lui e Jon sono rimasti molto turbati.

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5 Commenti

  1. Dichiarazioni trionfalistiche e fuori luogo
    Vero v
    Che nulla giustifica un’aggressione forse non bisognava fare di testa propria e soprattutto v
    Chiedere scusa per non aver rispettato il lavoro degli sherpa

  2. Fare di testa propria?
    Suggerirei di leggere (o farsi tradurre) le decine di testimonianze dirette di chi era lì.
    Una su tutte il resoconto di Chad Kellog.

    Qualunque cosa Simone abbia detto, non giustifica il tentativo di linciaggio accaduto.
    Il rispettare il lavoro degli Sherpa significa che la pena per non seguire le loro “leggi non scritte” è la morte?

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