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I glaciologi italiani sulla fusione dei ghiacci, ecco perché dati tanto diversi

Il ghiacciaio del Chnagri Nup
Il ghiacciaio del Chnagri Nup

MILANO — Il lavoro realizzato dal team americano composto da Thomas Jacob, John Wahr, W. Tad Pfeffer e Sean Swenson è sicuramente di grande importanza, con risultati inaspettati, quasi rivoluzionari. Ma per capire realmente come mai i dati siano così diversi da quelli ottenuti dalle ricerche al suolo realizzate fino ad oggi è necessario indagarne limiti e potenzialità aperte ora alla ricerca del futuro. Abbiamo chiesto un parere quindi a Guglielmina Diolaiuti, ricercatrice dell’Università di Milano e coordinatrice del Progetto Share Stelvio coordinato dal Comitato EvK2Cnr, e a Claudio Smiraglia, glaciologo di fama internazionale dell’Università degli Studi di Milano e ricercatore del Comitato EvK2Cnr.

“Jacob e colleghi hanno pubblicato i risultati di uno studio condotto per il periodo 2003-2010 utilizzando dati satellitari che permettono di stimare il cambiamento di gravità della Terra. Il progetto è attivo dal 2002 e si chiama GRACE (Gravity Recovery and Climate Experiment) e consiste in 2 satelliti che permettono il monitoraggio del campo di gravità del nostro Pianeta. E’ ovvio che se le masse glaciali si riducono avremmo innalzamenti crostali nelle aree deglaciate o con ridotti spessori glaciali, quindi è possibile stimare la riduzione dei ghiacciai dalla risposta crostale o meglio dalla variazione del campo di gravità.

Fino ad oggi però (ovvero prima dell’esperimento di Jacob e colleghi) i dati di GRACE non erano mai stati utilizzati per le stime di variazione di massa glaciale, o meglio non erano mai stati utilizzati x stimare simultaneamente la variazione di massa glaciale di tutto il Pianeta Terra (si erano condotti studi solo su porzioni limitate come la Groenlandia o parte dell’Antartide). Jacob e colleghi invece considerano le variazioni dell’intero pianeta. La difficoltà principale che aveva impedito questo approccio sino ad oggi sta nel fatto che GRACE misura il campo di gravità di tutto il Pianeta che dipende non solo dalle variazioni volumetriche dei ghiacciai ma anche dalle variazioni di massa e volume degli oceani, dall’atmosfera, dalle variazioni della terra solida e dall’idrolgia superficiale. Vi è poi il problema della risoluzione. I satelliti Grace sono sensibili alle variazioni nel campo di gravità su distanze di centinaia di chilometri. Quindi non possono rilevare differenze nel segnale conseguente alle variazioni di un singolo ghiacciaio  ispetto ad un altro (ovvero è difficile notare le specificità nelle variazioni, i dettagli a scala geografica anche regionale).

Per isolare i ghiacciai e le calotte dal resto dei fattori che determinano variazioni nel campo di gravità il team americano ha quindi introdotto il concetto di unità di variazione di massa, chiamate anche concentrazioni di massa, e ne hanno associato una per ognuna delle 18 regioni glaciali (o GIC ovvero Glacier and Ice Cap) considerate (una includeva anche le Alpi e i ghiacciai d’Europa). Analizzando queste concentrazioni di massa con modelli globali di idrologia superficiale e considerando anche il contenuto di umidità atmosferica, gli autori sono stati in grado di isolare la tendenza delle regioni glaciali (o GIC) su un periodo di 8 anni (2003-2010).
Con quali risultati?

1) Il contributo delle GICs (escludendo Antartide e Groenlandia) all’innalzamento marino globale è risultato meno di metà del valore stimato recentemente (nel 2001-2005) grazie a rilievi diretti ovvero è risultato 0.41 ± 0.08 mm all’anno contro il valore di 1.1 mm all’anno prima considerato attendibile.
2) Le variazioni di massa  nelle catene Asiatiche (Himalaya e Karakoram, Tianshan, Pamirs eTibet) non sono molto intense. Si è quantificata una perdita di  4 ± 20 giga tonnellate all’anno pari ad un contributo all’innalzamento del mare di 0.01 mm yr-1. Le stime precedenti davano valori 10 volte maggiori.

Questi risultati sono dunque attendibili e ribaltano le nostre conoscenze sulla dinamica glaciale attuale e sul tasso di innalzamento del mare? Bisogna fare molta attenzione. Da una parte un approccio come quello del team di Jacob, applicabile all’intero pianeta simultaneamente, è assai interessante. Fino ad oggi infatti, solo pochi ghiacciai nel mondo sono studiati in dettaglio e spesso le variazioni regionali o globali di ghiacci sono solo estrapolate con modelli che si basano su pochi dati puntuali. Dall’altra questo approccio non studia direttamente le variazioni dei ghiacciai ma le calcola a partire dagli effetti sul campo di gravità del nostro pianeta. E’ quindi indiretto e non è esente da possibili errori, primo tra tutti l’influenza della tettonica (innalzamento-abbassamento, variazioni crostali) che come sottolinea Jonathan Bamber – ricercatore inglese, uno dei massimi esperti di remote sensing – nel suo articolo critico apparso su Nature, e come dicono gli stessi autori della ricerca, può giocare un ruolo importante nel portare a risultati così diversi da quanto prima stimato.

Va poi considerato che l’intervallo studiato è molto ridotto, solo 8 anni, e spesso le variazioni avvenute in periodi brevi possono esser fuorvianti per trarre informazioni solide sulle tendenze a lungo periodo. Bamber ricorda ad esempio che le regioni del Golfo dell’Alaska, hanno variazioni inter annuali di bilancio di massa molto importanti per la grande variabilità delle precipitazioni e questo può essere anche il caso dell’Himalaya e dell’Asia in genere. Questo suggerisce di rivedere questi risultati in futuro, su serie di dati più lunghe e più significative.

Bisogna poi tener conto che se da una parte è vero che pochi ghiacciai sono studiati direttamente per valutarne le variazioni di massa e volume e quindi il contributo all’innalzamento del livello del mare, dall’altra è anche vero che sulle Alpi ad esempio abbiamo una positiva eccezione con moltissimi ghiacciai studiati sul terreno e con dati di grande risoluzione ed accuratezza. Qui i dati diretti ci indicano un regresso intenso, molto intenso.

E’ appena il caso di ricordare che nell’ambito del progetto SHARE Stelvio sostenuto da regione Lombardia e grazie ai materiali forniti dall’ITT di RL, abbiamo misurato una riduzione areale dei ghiacciai del Parco dello Stelvio (43 ghiacciai studiati su un periodo di oltre 50 anni, dal 1954 al 2007) del 40% ed una riduzione volumetrica di 766 milioni di metri cubi di ghiaccio pari ad almeno 702 milioni di metri cubi di acqua. Se consideriamo i dati di arretramento frontale il solo Ghiacciaio dei Forni è arretrato di 2 km in circa150 anni riducendo il suo spessore sulla lingua di 100 metri circa nell’ultimo secolo. Sono quindi stati rilasciati volumi di acqua non trascurabili e questi sono dati certi.

E’ anche vero però che i tassi di riduzione dei ghiacciai delle Alpi sono molto intensi e non sono estendibili alle aree Asiatiche dove le condizioni meteoclimatiche sono diverse, come le ricerche più recenti, condotte ad esempio in ambito SHARE, ci indicano. Per queste zone, ancora poco conosciute e molto importanti poichè forniscono acqua a milioni di persone, è dunque fondamentale infittire i rilievi diretti ed aumentare le nostre conoscenze per confrontare poi i dati certi con quelli desunti da GRACE ed arrivare a definire davvero cosa sta succedendo ai ghiacci del nostro Pianeta e che effetti avremmo sul livello medio dei mari. Da ultimo è bene ricordare che il livello del mare non cambia solo in funzione dell’acqua che proviene dalla fusione dei ghiacci continentali, ma dipende anche dall’espansione termica degli oceani. E’ anche questo contributo va valutato correttamente”.

 

Guglielmina Diolaiuti e Claudio Smiraglia

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