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Edurne e Juanito: guerra mediatica per il soccorso al Lhotse

Juanito Oiarzabal trasportato alla fine dell'Icefall (Photo D. Rodriguez courtesy of Desnivel.com)
Juanito Oiarzabal trasportato alla fine dell'Icefall (Photo D. Rodriguez courtesy of Desnivel.com)

MADRID, Spagna – “Io non ho messo in pericolo la vita di nessuno. Sono salito e sceso da solo, e ho ricevuto aiuto solo l’ultima mezzora, al campo base. E chi mi accusa di “una mancanza di professionalità e di etica alpinistica”, non sa cosa dice”. Pesano come sassi le parole di Juanito Oiarzabal, che rientrato dall’Everest ha convocato una conferenza stampa per chiarire il suo ruolo nei soccorsi al Lhotse, accusando pubblicamente Edurne Pasaban di mentire e di averlo usato come “scudo” per il suo fallimento. “Mi rifiuto di dire amen alle parole della principessa del popolo” ha detto Oiarzabal alla rivista Desnivel.

Oiarzabal ha convocato i giornalisti appena rientrato a Kathmandu, per raccontare la sua versione dei fatti.
“Questa primavera ho deciso di tentare la salita del Lhotse – racconta Oiarzabal -. Sapevo che il campo sarebbe stato affollato dalle spedizioni commerciali ma non quanto la montagna fosse diversa da quella che avevo salito 16 anni fa: una montagna, insieme con l’Everest, che ha perso la sua essenza e non permette di praticare un altro tipo di alpinismo da quello commerciale, senza possibilità di uscire dai suoi ritmi. Quando l’ho capito avrei dovuto tornare, ma con i miei 55 anni, ho pensato che questa sarebbe stata la mia ultima possibilità di salire il Lhotse senza ossigeno. Oggi riconosco che questa decisione è stata un errore che oggi sto pagando”.

“Prima di tutto credo sia necessario ricordare – dice Oiarzabal – che in spedizione ero solo. Condividevo il permesso con alcuni alpinisti che conoscevo, ma la nostra responsabilità collettiva si concludeva al campo base. Abbiamo fissato tutti il tentativo di vetta per il 21 maggio perché era la data migliore come previsioni meteo. La salita al campo 4 (circa 7.900 m) si è svolta normalmente. Naturalmente, con l’inizio della salita, ognuno prendeva le sue decisioni ed è stato responsabile per sé e per la sua sicurezza. La mattina dopo siamo partiti per la cima e ci siamo separati, ognuno secondo il suo ritmo e le sue forze”.

“Io sono arrivato in cima all’una e mezza con un piccolo gruppo formato da Carlos Pauner, Juanjo Garra, Javier Perez e Norbuk – racconta l’alpinista spagnolo -. Siamo saliti senza l’utilizzo di ossigeno, tranne il cameraman Javier Perez. Appena ho notato che le mie amputazioni al piede facevano male, sono sceso il più velocemente possibile al campo 4. Sono arrivato verso le 16, e ho cominciato a sciogliere la neve per i miei compagni. Quelli che erano con me in cima sono arrivati poco prima del tramonto molto stanchi. Gli ultimi sono stati Isabel e Roberto, alle 5 del mattino. Lolo non è arrivato: aveva chiamato il campo base ed era partita l’operazione di soccorso. Abbiamo provato a lanciargli segnali ma non abbiamo avuto risposta. Isabel e Roberto, che erano scesi dietro di lui, non avevano visto le sue tracce il che ci ha fatto supporre che il fosse caduto in fondo al couloir. Mi sono girato e rigirato tutta la notte e dicendomi che non poteva ripetersi la storia dell’Annapurna dello scorso anno. Non riuscivo a dormire per niente. Avevo poche forze, ero riuscito solo a bere un po’ di liquidi”.

“La mattina dopo abbiamo iniziato a comunicare con il campo base per sapere cosa potevamo fare per Lolo – prosegue Oiarzabal -, ma i medici hanno insistito sul fatto che scendessimo perché la nostra situazione sarebbe peggiorata e comunque non potevamo fare nulla. Nel frattempo, per fortuna, Damian Benegas e la guida Matoco (Matías Erroz), scendendo dall’Everest, hanno visto Lolo, vicino a campo 4 e lo hanno salvato, e hanno inoltre contribuito a salvare Roberto. Gli devono la vita”.

“A campo 2, ci sono stati momenti di tensione con Carlos Pauner – dice Oiarzabal – che non voleva mettere la bombola di ossigeno pur avendo una saturazione nel sangue molto bassa, e Isabel García, che voleva addebitare a non so chi il costo dei soccorsi (l’ho appreso in seguito). La mattina dopo un elicottero è salito al campo 2, a circa 6400 metri, per evacuare e Roberto e Lolo a Kathmandu. Noi siamo scesi. Io avevo mangiato e bevuto molto poco. Ero completamente esausto e i piedi erano doloranti. Sono arrivato a campo 1 ma ero talmente lento, non era normale. Alla prima pausa ho chiesto a Carlos Pauner, Juanjo Garra e Javier Perez di farmi un’iniezione di desametasone. Ho anche chiesto a Javier di darmi una bombola di ossigeno per vedere se migliorava la situazione. E così, quasi trascinandomi, sono riuscito ad arrivare vicino alla fine dell’Icefall, a mezz’ora dal campo base. Ho parlato con Edurne e gli ho detto di mandare uno Sherpa per me”. La foto arrivata in Spagna non è delle operazioni di soccorso, ma del mio arrivo al campo base in una situazione terribile. Io ringrazio di cuore tutti coloro che mi hanno aiutato. Ma non quelli che dicono mi hanno salvato dal campo 4 e quelli che mi accusano, senza nomi, di aver messo i miei compagni in pericolo”.

A questo punto, Oiarzabal innesca la polemica con le spedizioni che hanno operato i soccorsi, in primis quella della Pasaban che aveva annunciato la fine della spedizione dicendo “Torniamo a casa senza cima ma con la soddisfazione di aver salvato tre vite”.

“Dicono che l’incidente ha deciso la fine della spedizione – ha detto Oiarzabal – e che hanno salvato 3 vite, ma non si sono mossi dal campo base. 50 persone coinvolte? Un’esagerazione. E’ chiaro che avevano già deciso di ritirarsi dalla montagna. Se i tre alpinisti che erano in pericolo sono salvi, è per il sorprendente lavoro dei fratelli Benegas e Matoco. Io ho ricevuto sostegno per mezz’ora, non un minuto di più, quando ormai avevo quasi concluso la discesa da solo”.

Juanito spara a zero anche sul comunicato congiunto delle spedizioni coinvolte nel soccorso, dove vi sono critiche esplicite verso gli alpinisti spagnoli scesi dal Lhotse quel giorno. “Senza nominarmi, mi accusano di aver messo a repentaglio delle vite, quando invece ho fatto una salita pulita e veloce e ho aiutato i miei compagni quando potevo. Lo hanno venduto come il salvataggio del secolo, quando ce ne sono stati di molto più notevoli. Io stesso ho avuto problemi, ma è stato un gioco da ragazzi confrontato con la discesa del K2 nel 2004. Ciò che più mi fa male è che hanno usato me, senza tener conto del danno che stavano facendo per la mia famiglia ei miei cari. Per nascondere un fallimento non hanno misurato i danni che hanno fatto”.

“Ammetto che è stata una discesa difficile e dolorosa – conclude Oiarzabal – per la mancanza di idratazione, e anche dalla mancanza di riposo dovuto alla tensione di quei giorni. E ‘colpa mia, lo ammetto. Ma non capisco come alcuni, non sapendo nulla di quanto accaduto, mi abbiano scelto, ancora una volta, come capro espiatorio per una situazione con cui non ho avuto niente a che fare”.

Ma cosa risponde Edurne Pasaban? Appena sbarcata in Spagna, ha tenuto una conferenza stampa per rispondere alle accuse di Oiarzabal. “Noi non abbiamo usato il soccorso al Lhotse come scusa per non aver fatto la cima – ha chiarito la basca – E’ stato un fattore che ha stancato ma non la causa. . Volevamo ritentare ma il meteo non era l’ideale e dopo tutto quello che è successo in quelle 48 ore, in cui non abbiamo mai dormito, abbiamo decidso di tornare a casa. E poi è vero, diffondere il video del “salvataggio” di Juanito è stato un errore, ma non è stata una mia decisione”.

Edurne ha parlato molto bene delle spedizioni commerciali che all’inizio della spedizione, sul suo blog, aveva criticato. Poi ha detto di aver la sensazione che l’immagine dell’alpinismo spagnolo sia stata danneggiata. “Stiamo dando una immagine pessima – ha detto la Pasaban -, non solo nel nostro paese, ma anche fuori. Il nostro sport ha valori molto diversi da quelli che appaiono in questi giorni sulla stampa”.

“Per essere onesti, io non lo so perché Juanito abbia fatto queste dichiarazioni – conclude la Pasaban -. Abbiamo avuto un buon rapporto al campo base. Ci sono rimasta male, non per le dichiarazioni, ma per il dolore che creano in tutti noi”.

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