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Con 3 piedi sul San Matteo, in escursione con Oliviero Bellinzani

Roberto e Oliviero in vetta pic
Roberto e Oliviero in vetta

Nonostante i 2.560 metri del Rifugio Berni e la notte serena, la mattina era piuttosto calda e lasciava presagire una giornata di sole caldissima sul ghiacciaio, tanto più che la partenza era stata ritardata alle 6 anziché alle 5. La neve nei pendii di accesso al vallone del ghiacciaio di Dosegù era infatti piuttosto bagnata e rendeva il cammino difficoltoso per i tratti in cui si affondava. Era così per me e per gli altri cinque amici con cui avevamo progettato la salita dei 3.678 m del Monte San Matteo, nel gruppo dell’Ortles-Cevedale, ma per uno di loro era anche peggio, dovendo fare affidamento su un solo piede e due stampelle.

Già, risalire un lungo ghiacciaio saltellando su una gamba e appoggiandosi su due stampelle con dei dischi di gomma per non affondare nella neve… Ma Oliviero era ben abituato a tale fatica, dopo trent’anni e più di 600 cime salite così. Si risvegliò dal coma senza la gamba sinistra dopo un incidente in moto intorno ai venti anni, e da quel giorno la sua vita cambiò. Sparì una gamba ma spuntarono le ali, nella sua testa prima di tutto, così dopo soli sei mesi era di nuovo in montagna ad imparare a camminare di nuovo e scalare come poteva. Col tempo affinò la tecnica, l’equilibrio, la volontà, l’allenamento e tornò a scalare montagne che anche poche persone con due gambe scalano, come il Cervino, il Gran Capucin, lo spigolo nord del Pizzo Badile e centinaia di altre cime, per roccia e per ghiaccio.

Conoscendo le sue imprese non mi preoccupai di proporgli una salita in ghiacciaio, pur sapendo che preferiva la roccia, sapevo bene che avrebbe fatto le scarpe a tutti, pian piano, semplicemente camminando su una gamba e due stampelle. Ma la neve fonda all’inizio del percorso non era stato un buon modo di cominciare la giornata, comportando tanta fatica inutile in più e rallentandoci un bel po’. Gli altri quattro, Marco, Matteo, Piercarlo e Emanuele, erano un bel po’ avanti ed ogni tanto si fermavano ad aspettarci, ciononostante continuavamo ad accumulare ritardo. Ad una loro proposta di lasciar perdere la salita al San Matteo e salire una cima più bassa e vicina in modo da restare tutti insieme, Oliviero rispose che eravamo lì per il San Matteo e quello doveva essere. Io ero d’accordo con lui e così proseguimmo. Ma gli imprevisti continuavano a presentarsi: affondamenti sulla neve, pause, una stampella che perde una vite ed il puntale (per fortuna Oliviero aveva un set di ricambi)…

Ad una ulteriore sosta dopo aver raggiunto gli altri dico a Marco di lasciarmi la corda da 30 m e di andare avanti loro facendo cordata a quattro, noi saremmo arrivati.
“Sei sicuro?”, credo abbia chiesto qualcuno.

“Ho esperienza più che sufficiente per affrontare questa salita e Oliviero ne ha più di noi tutti messi insieme, per cui proseguiamo”, risposi.

Fu in quel momento che la mia determinazione prese il sopravvento definitivamente, mi disse che saremmo arrivati in vetta anche io e lui e non mi abbandonò fino al rientro in rifugio, 11 ore dopo la partenza. Poco prima, data la lentezza e il tempo che passava, avevo avuto un momento di dubbio, pensando che forse sarebbe stato meglio lasciar perdere perché ci avremmo messo una vita a salire. Ma poi è scattato qualcosa in me, partendo da una specie di preghiera rivolta a me stesso, e mi sono detto che avrei camminato al suo fianco fino in cima.

Arrivati sul ghiacciaio la neve era finalmente ben dura e si procedeva senza affondare, ramponi ai piedi e speditamente. Dopo il primo ripiano quasi orizzontale un tratto più ripido portava alla seraccata di destra del ghiacciaio di Dosegù. Tutti salivano sul lungo pendio all’estrema destra che evitava il pendio con i crepacci, effettuando un percorso più largo e lungo, di conseguenza più faticoso. Io e Oliviero decidiamo di risalire il ripido pendio ghiacciato dato che i crepacci erano ben coperti di neve dura e c’era già una traccia che saliva, risparmiando così tempo e fatica. Il ghiacciaio era in condizioni perfette, completamente coperto di neve dura e così non ci leghiamo per tutta la salita fino alla sella sotto la cima. Lungo il pendio ripido si intuiva qualche taglio che segnalava la presenza di crepacci sottostanti e infatti una delle stampelle di Oliviero si infila in un buco e si storce sotto il peso di Oliviero che ci cadde sopra.

“E’ proprio una giornata sfigata”, dice lui.
Io mi limito a premere con una mano sulla stampella curvata e appoggiata alla neve dura, raddrizzandola in un attimo.
“E’ addirittura più dritta di prima, bravo!” mi dice.
Sbuffa un po’ per la fatica e gli imprevisti, così gli chiedo semplicemente: “Dubbi?”. “No!”, risponde con decisione e fermezza. Il tono e la tranquillità di quel “no” mi fà capire con chi ho a che fare e che quel giorno avremmo messo 3 piedi sulla cima del San Matteo.

Usciti dal pendio crepacciato riprendiamo la salita nella massima tranquillità, alternando zone quasi pianeggianti a tratti più ripidi e faticosi, per lo più fianco a fianco chiacchierando beatamente, tant’è che non sentivo la fatica per l’aumento di quota e il mio scarso allenamento. Gli altri alpinisti e scialpinisti che passavano si fermavano e guardarci, a fare delle foto, a parlare con Oliviero, a complimentarsi increduli per la sua forza di volontà. Già, un esempio per tutti, prima di tutto per me che ogni tanto mi lamento di fastidi ai muscoli delle gambe che negli ultimi anni mi danno il tormento. Ma la lezione di Oliviero è semplice: “i nostri limiti sono prima di tutto nella nostra testa”, come dice lui.

Così, dopo 5 ore di chiacchiere, cammino, foto, filmati di lui che sale, e ancora discorsi sulla montagna, le cime, le vie, le persone, la famiglia, il passato, gli amici, i figli raggiungiamo beatamente e senza fiatone la sella a oltre 3.500 m sotto la cima. C’è ancora la maggior parte degli altri alpinisti che sta scendendo faccia a monte sul tratto ripido e gradinato che dalla sella porta al pendio finale o che era ferma a riposare sulla sella. Ci riposiamo un po’ anche noi e ci leghiamo in cordata lasciando gli zaini sulla sella, Oliviero mette delle punte apposite alle stampelle in modo da ramponare anche quelle e poi mi avviai verso la rampa ghiacciata lasciandolo presso una nicchia fra roccia e neve ad aspettare il recupero della corda. Il pendio è ripido ma con grossi buchi delle impronte di passaggio e si saliva senza alcuna difficoltà, tant’è che in un attimo mi ritrovo sulla cresta chiedendomi come mai tutti facessero tante difficoltà a salirlo e scenderlo… Dopo aver piantato per bene la piccozza nella neve dura ed aver agganciato un moschettone recupero la corda e dico ad Oliviero di salire. Per un momento mi sono detto “Ma guarda cosa stai facendo, stai recuperando come tuo compagno di cordata un personaggio come Oliviero Bellinzani, l’uomo con le ali che senza una gamba in montagna, e nella vita, ha superato difficoltà più gradi di quanto tu potrai mai fare”. Mi sento contento ed onorato di averlo accompagnato in questa salita. Infatti lo ho solo accompagnato, camminandogli a fianco o dietro o davanti, non lo ho portato su io, ma la sua forza fisica e di volontà.

Il pendio ripido comporta qualche difficoltà in più per lui, ma io lo lascio salire senza tenerlo in tiro, come avrei fatto con qualsiasi altro compagno di cordata al mio pari. Un basso gradino di roccia da risalire, un tratto di larga cresta e poi il pendio finale a 45°. Lì incontriamo gli altri amici che scendoano, non li avevamo più visti, ma vederli lì sotto la cima mi sorprese un po’: o ci avevano aspettato ancora o dopotutto non eravamo andati poi così piano! Qualche battuta con loro, qualche altra chiacchiera con la gente che si fermava a complimentarsi con Oliviero, fra cui varie persone che aveva incontrato su altre cime chissà dove, e dopo cinque ore e quaranta minuti di salita siamo a pochi metri dalla vetta. Oliviero mi chiede di farlo passare avanti per arrivare in vetta per primo e gli lascio volentieri il posto, non aveva di certo bisogno di me come guida! Pochi metri di cresta e siamo sulla bianca punta del San Matteo, a 3.678 m di altezza, sotto un cielo blu ed un sole scintillante. Una stretta di mano, come sempre quando si arriva in cima, qualche foto, una pausa chiacchierando con altri sulla vetta, una veloce contemplazione delle cime e dei ghiacciai intorno e giù per il pendio, faccia a valle per entrambi, fino alla cresta. Lì faccio di nuovo sicura a Oliviero che poi si slega e prosegue da solo fino alla sella. Recupero la corda, scendo il ripido tratto sempre faccia a valle e lo raggiungo. Il resto del popolo della montagna è già sceso, ci sono ancora due persone in cima, e altri sei ritardatari che salgono. Ci rifocilliamo un po’ e poi giù per il ghiacciaio.

Sotto il sole cocente la neve stava mollando e si comincia ad affondare, ma non troppo, procediamo veloci fino al pendio crepacciato e lo discendiamo lungo il percorso di salita. Oliviero si diverte in una bella scivolata seduto con freno-stampella anziché freno-piccozza! Nella parte bassa del ghiacciaio decidiamo di tagliare verso destra per evitare il resto di nevaio e il pendio morenico del mattino che lo aveva fatto sgobbare. Già dal mattino avevamo deciso che saremmo scesi sul lato scoperto in modo da sfruttare rocce e sassi su cui lui cammina più agevolmente. Iniziamo così un percorso del tutto nuovo, seguendo alcuni ometti che ci portano su un dosso su cui finiscono.

Da lì ci inventiamo il percorso scendendo brevi risalti rocciosi, qualche campo di neve, sassi e ghiaie, fino a raggiungere il lato opposto del vallone dopo aver attraversato il torrente su un ponte di neve. Scendiamo agevolmente con il solito orientamento a vista, io vado avanti in avanscoperta e un paio di volte da dietro Oliviero mi corregge la direzione. Tendo a distaccarlo un po’, ma continuo a tenerlo a vista e so sempre dove si trova. La discesa da quel lato del vallone è piuttosto lunga e il caldo la rende più faticosa. Nella parte bassa troviamo una traccia sbiadita, chissà da quanti anni nessuno passa di lì, e alla fine raggiungiamo il letto del torrente e il ponte dell’amicizia che ci riporta al sentiero per il rifugio Berni. Ancora campi di neve, prati zuppi d’acqua, prati fioriti e infine il rifugio. Io tendo a velocizzare il passo, ma Oliviero è giustamente stanco almeno quanto me, e mi dice di salutarci lì così posso andare a casa, dato che avevo un po’ di premura di tornare in tempo per mettere a nanna il mio bimbo.

“Siamo partiti insieme e torniamo insieme”, gli rispondo.
“Questa è una bella cosa”, dice lui, “il mio amico Max mi avrebbe lasciato qua…”.
Un cartello segnaletico indica il sentiero per il San Matteo: tempo 5 ore, noi ne abbiamo impiegate 5 e 40 minuti, pause comprese, direi buono!

Dopo 11 ore torniamo al punto di partenza. Il rifugiata si complimenta con noi, ci ha seguito con il binocolo in salita e discesa. Lo lascio chiacchierare con Oliviero, io non ho fatto niente di speciale, lui sì! Telefono a casa, dovrei arrivare per le ore 20, in tempo per abbracciare Alessandro e dargli la buona notte. Ringrazio Oliviero, gli stringo forte la mano e gli do’ appuntamento ad una futura uscita, stavolta in roccia. Prima di salire in auto guardo un’ultima volta la vetta del San Matteo con il bianco fazzoletto del ghiacciaio ai suoi piedi, lo ringrazio, oggi mi ha permesso di fare qualcosa di speciale: salire la sua cima con tre piedi!

Roberto Ciri

Data della salita: 27/06/2010
Relazione tecnica della salita su: www.vienormali.it/montagna/cima_scheda.asp?cod=1588
Relazione fotografica su: www.vienormali.it/montagna/fotoscalate.asp

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Un commento

  1. Grandissimo Oliviero ! esempio per tutti. Ho avuto l’onore di conoscerlo ad una serata a lui dedicata, nella quale ha raccontato la sua storia e illustrato le sue imprese alpinistiche. Esempio e stimolo per superare le difficoltà della vita, grandi o piccole che siano. Cesare Re

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