Arrampicare in mezze maniche sopra duecento milioni di anni di storia
Una giornata sulla roccia che racconta, in silenzio, una storia lunghissima. Che vale la pena ricordare

L’elleboro, pianta a fioritura invernale, se ne sta acquattato all’ombra. Velenoso, carico di mito e di leggende, presidia il margine del bosco come un avvertimento silenzioso.
Al sole, invece, la parete a specchio si accende di luce e si scala tranquilli, a mezze maniche, come se l’inverno fosse solo una convenzione del calendario.
L’abbiamo raggiunta in breve, risalendo brandelli di acciottolato ripido e liso da innumerevoli passaggi. Un tratto di sentiero antico che pare portarsi con sé una memoria letteraria ostinata, dove viene naturale immaginare i passi frettolosi di Don Abbondio, l’ombra dei Bravi, le inquietudini manzoniane ancora incollate alla pietra…
È bello mettere le mani su questo calcare compatto nei mesi freddi. Tra un movimento e l’altro, tra rigole, tasche e rade fessure, torna in mente il tempo lungo di questa roccia, più di duecento milioni di anni, deposta in acque calde e poco profonde, costruita lentamente da organismi marini.
Oggi ci giochiamo sopra, felicemente, immersi in una luce speciale, quella che solo le giornate d’inverno sanno regalare.
Saliamo lungo una classica della parete che delimita a destra il settore compattissimo e verdoniano delle vie sportive. Rebus minerali tracciati negli anni Ottanta, oggi placche verticali un po’ demodé, ma ancora capaci di insegnare misura e precisione.
Sotto di noi la città manzoniana, il traffico, i laghi prealpini, la valle abduana che si perde verso la pianura operosa. Dalla striscia di foschia e smog in lontananza emergono le torri milanesi del terziario avanzato, fossili contemporanei di un altro tempo geologico.
Siamo quassù, così vicini eppure lontanissimi. E felici.







