In cordata

Aragoste al rifugio? La cucina è libertà, proprio come la montagna

La bresaola brasiliana, il grano saraceno cinese, la cioccolata peruviana e il caffè ugandese non scandalizzano. Perché, allora, demonizzare le ostriche e gli scampi nei rifugi?

Mi piace molto il pesce. Mi piace in Riviera, mi piace a Milano e mi piace ai 2000 metri del Club Moritzino in Alta Badia (qui al netto del rumorosissimo après ski). L’unico sgarbo che si può fare al pesce non è di portarlo alle alte quote, tra polente e spezzatini di cervo in civet, ma di cucinarlo male. Se poi qualcuno, al tavolo vicino, si scandalizzerà, perché “il pesce non è roba da rifugio”, libero di continuare coi suoi taglieri di formaggi e affettati: quelli sì che fanno bene alle arterie!

Battute a parte, per parlare sensatamente di gastronomia e rifugi, bisogna mettersi prima d’accordo sul significato dei termini. Partiamo dalla gastronomia. Come tutti abbiamo letto, ultimamente la cucina italiana è stata dichiarata Patrimonio immateriale dell’Unesco.
La notizia, ampiamente annunciata, ha sollevato molto orgoglio sovranista da parte del nostro governo, ma anche diversi commenti negativi. Il più velenoso quello di Giles Coren, critico del Times, che in sintesi ha detto che la cucina italiana fa schifo e andrebbe invece premiata quella inglese. Very funny!
Su La Stampa invece Maurizio Maggiani ha scritto che “la cucina italiana non esiste”, e il vero patrimonio sta nel rito universale di nutrire chi si ama. Filosofico. In medio sta il giudizio della storica Mila Fumini su Gambero Rosso, la quale afferma che “la cucina italiana esiste ma non è un santino in cornice… ma un mosaico che cambia nel tempo e vive di ibridazioni, scambi, adattamenti”.
Questo mi sembra il commento più ragionevole: la nostra tradizione culinaria si basa ampiamente suprodotti portati 500 o mille anni fa dall’Africa e dal Sud America, e senza ibridazioni non esisterebbe (inoltre, se fossimo oggi costretti a mangiare i piatti – e i vini – di Apicio, famoso cuoco d’epoca romana, li troveremmo ripugnanti).

E veniamo ai rifugi. Che bisogna distinguere, tra rifugi alpini/alpinistici e rifugi per pistaioli affamati. Nel secondo caso, siamo nel regno del consumismo puro, e chi ha l’autorità di dire: “qui solo polente”? La legge della domanda e offerta dice che lo sciatore cittadino ha il diritto di mangiare quel che vuole, al prezzo che è disposto a pagare.
Ha fatto molto rumore (per nulla) la notizia che ad Alpe Motta, in Valmalenco (SO) arriveranno cuochi di Pantelleria con un menù di pesce: e allora? O per dirla con il critico del Times: so what? Non è uno “scandalo” di oggi, già da molti anni il rifugio Comici sotto il Sassolungo offre aragoste e scampi, al Moritzino come vi ho detto ho mangiato ottimi spaghetti alle vongole e nel sacrario del Monte Rosa, il nuovo ristorante presso l’istituto di ricerca Angelo Mosso, complice un fidatissimo distributore valsesiano può offrire il pesce fresco a quasi 3000 metri.

E se invece il rifugio è di quelli dedicati ai veri amanti della montagna e dell’alpinismo, il discorso cambia? Non sono forse liberi, gestori e clienti, di fare le loro scelte gastronomiche? Esiste una qualche voce nei regolamenti del Cai, che obblighi alla “tipicità” dei menu? Se così fosse, sarebbero a rischio le bresaole di carne brasiliana, i pizzoccheri di grano saraceno cinese, e perfino il caffè arabica dall’Uganda e la cioccolata (con o senza panna) dal Perù. L’ibridazione è la chiave della nostra storia gastronomica e sono convinto che gli unici ad avere voce in capitolo su cosa mangiamo e dove lo mangiamo siano i nuclei antisofisticazione dei Carabinieri.

Insomma, lasciamoci alle spalle le retoriche sovraniste e gli abbagli dei prodotti tipici, la cucina, italiana o meno, deve rimanere il regno della libertà, esattamente come la montagna. E per chi ancora ha qualche dubbio, pensiamo che le nostre belle cime un tempo lontano erano fondali marini: più pesce di così!

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