A tu per tu con Benjamin Védrines: polivalente e sempre straordinario
“Il mio premio ai Piolets d’Or è una pacca sulla spalla a tutti coloro che combattono le etichette”. Il fuoriclasse francese si racconta e sottolinea come per lui sia indispensabile andare in montagna in tanti modi diversi


«Mi sento bene. Anche se sono stanco per via del tour, perché non è un ambiente usuale per me. Sto andando un po’ dappertutto, accumulando ore di guida. Ma sono felice di poter tornare presto a casa dalla mia famiglia e avere nuovamente la mia libertà». Risponde così Benjamin Védrines alla prima e più scontata domanda che gli poniamo: come stai? Reduce lo scorso ottobre dallo Jannu Est, affrontato in cordata con Nicolas Jean, Védrines si è infatti subito imbarcato in una serie di conferenze in giro per l’Europa, che lo hanno portato a raccontare la sua impresa al K2 dello scorso anno, attraverso il film K2 – Chasing Shadows. 10 ore, 59 minuti e 59 secondi è il tempo impiegato da Védrines per salire dal campo base avanzato, posto a circa 5.350 metri di quota, fino agli 8.611 metri della seconda montagna più alta del mondo.
Arrivato a San Martino di Castrozza, dove lo abbiamo incontrato, Benjamin ha inoltre ricevuto un premio più unico che raro nella storia dei Piolets d’Or: una menzione speciale che non funge da riconoscimento per una salita in particolare – portata avanti in stile alpino e secondo una specifica visione esplorativa, com’è consuetudine per i criteri di assegnazione del Piolet – bensì per tutta una serie di ascese che in questi ultimi anni lo hanno visto protagonista. Più una sorta di premio alla carriera, forse. Peccato però che Benjamin abbia soltanto 33 anni. «È la prima volta che viene assegnata una menzione del genere ad un’attività come la mia, – commenta – ad un mix così variegato di ascese. E anche di discese, in realtà, perché viene menzionato pure lo sci ripido».
Come hai saputo del premio?
«È divertente perché ho saputo del premio soltanto poco prima di lasciare il campo base, in Nepal. Stavo preparando le cose per rientrare dalla mia più recente spedizione allo Jannu Est, quando Christian (Trommsdorff, presidente del Groupe de haute montagne, ndr) mi ha mandato un messaggio ufficioso, da amico. Ero molto sorpreso. Il Piolet d’Or, nonostante ne riconosca l’importanza, non è mai stato qualcosa a cui aspiravo, come può esserlo per altri alpinisti. E questo semplicemente perché sento di “giocare” in un’altra categoria».
Sei un alpinista e un atleta polivalente, che spazia dall’alta quota alle vie sulle Alpi, dallo sci ripido al parapendio, senza soluzione di continuità. Pensi di incarnare un po’ il futuro di un approccio alla montagna in via di trasformazione?
«Anzitutto credo che un approccio polivalente sia tipico delle Alpi. Questo perché viviamo in alte vallate circondate da un sacco di montagne con caratteristiche differenti. In altri contesti penso non si viva la montagna nello stesso modo, con lo stesso stile di vita e la stessa connessione. Essere polivalenti è molto facile sulle Alpi perché non esistono “cattive” stagioni: ti adatti al periodo dell’anno. È abbastanza logico, in questo contesto, sviluppare anche nuovi metodi e nuove tecnologie. Prendiamo per esempio il parapendio: se oggi sei un giovane alpinista a Chamonix e non vai con il parapendio è piuttosto strano perché non sei del tutto incluso nella community. E anche se ora volare sembra diventato un classico, non è una cosa così nuova: basti pensare a Jean Marc Boivin».
Parlare di parapendio significa parlare di un approccio light and fast alla montagna, non solo nelle Alpi.
«Assolutamente sì. Anzitutto, non abbiamo bisogno di portatori e questo ci rende competitivi dalla base alla cima. Tornando a Jean Marc Boivin, lui decollò da poco sotto la cima del K2, ma aveva un portatore che si premurava di trasportare i 20 kg del suo deltaplano sulle spalle. Era il 1979 e nel 2025 la nuova leggerezza che abbiamo scoperto attraverso il parapendio è strategica, ad esempio, per progetti come i concatenamenti. Dunque sì: è senz’altro il futuro, ma penso che in parte sia già il presente e che sia già stato il passato».
Parlando del tuo, di passato, tornerai più al mestiere di guida alpina?
«Ho fatto la guida per diversi anni, poi ho dovuto pormi seriamente una domanda: “voglio ancora trovare un equilibrio fra il mio lavoro come guida alpina e quello come atleta professionista?”. Era diventato molto difficile dire no a dei clienti all’ultimo minuto, perché il meteo era così buono che preferivo fare qualcosa per conto mio. Ho avuto bisogno di renderlo chiaro nella mia testa ed ora lo è. Quindi no, non faccio più la guida. Non ho neanche rinnovato l’assicurazione (ride, ndr), quindi non potrei nemmeno esercitare, dal punto di vista legale. In futuro, vedremo».
In che altri modi è cambiata la tua vita dopo i tuoi recenti successi?
«Totalmente. E il fatto è che questo cambiamento non l’ho visto arrivare. Però ne ero preparato. Sarei ipocrita a dire il contrario: dentro di me per certi versi non aspettavo altro. Mi piace vivere dei miei progetti, ma pago anche un prezzo per questo. Non posso più andare in una palestra d’arrampicata senza che le persone inizino a chiedermi cose. E non ho più gli stessi rapporti di prima con gli amici, il che è forse la parte più difficile. Sai, sono una persona che nei propri progetti mette se stessa al 100% dunque non ho nemmeno il tempo di chiedermelo. Quando non sono in giro per il mondo, vivo con i miei genitori a Briançon e mi piace trascorrere le giornate insieme a loro. Sono momenti preziosi e mai abbastanza lunghi. Ecco: se questi momenti non ci fossero, di certo mi mancherebbero».
Pensi che la tua menzione speciale a quest’edizione dei Piolets d’Or possa aprire le porte ad un futuro in cui anche un approccio all’alpinismo come il tuo verrà, di norma, premiato?
«Onestamente no. Ma io non mi sono mai posto il problema. Ne parlavo con Hervé Barmasse e mi raccontava di come alcune persone gli andassero a chiedere quale salita consigliasse per poter aspirare ad un Piolet d’Or. Sono stato anche alle due edizioni del premio ospitate in passato a Briançon. Ma il punto è che viviamo in un mondo di etichette, nelle quali vogliamo riconoscerci perché forse ci sembrano familiari. L’himalaista, lo sciatore ripido, il pilota di parapendio, l’arrampicatore. Eppure ognuno di noi è differente e può fare bene diverse cose. Penso che la mia menzione sia una pacca sulla spalla a chi, come me, crede nella totale arbitrarietà di queste etichette. Perché siamo noi ad imporle, di certo non la montagna».



