David Göttler: “lo stile alpino non è una definizione rigida, l’importante è la trasparenza”
La nostra intervista allo scalatore tedesco, che racconta del suo “inseguimento” al Nanga Parbat, del suo rapporto con la montagna e con i tanti compagni di spedizione. E della sua personalissima etica
Tedesco, classe 1978, David Göttler è uno dei protagonisti più lucidi e coerenti dell’alpinismo himalayano contemporaneo. Membro del team The North Face, ha costruito la propria carriera inseguendo una sola idea: salire alto ma con poco, cercando la purezza più che la conquista. Dall’Everest al Dhaulagiri, dal Shisha Pangma fino alla recente salita della parete Rupal del Nanga Parbat in stile alpino, Göttler ha fatto dello stile una filosofia di vita oltre che di salita.
Hai inseguito la parete Rupal del Nanga Parbat per anni prima di riuscire a salirla. Cosa ti ha spinto a tornare ogni volta?
Il Nanga Parbat è sempre stato come una carota davanti al mio naso: ogni volta ci tornavo un po’ più vicino, un po’ più in alto, e ogni volta imparavo un nuovo pezzo del puzzle. Ho sempre sentito un legame positivo con quella montagna, cosa che non mi è successa ovunque. Ad esempio, sul K2 sono arrivato tre volte a 8.000 metri, ma non ho alcun desiderio di tornarci. Con il Nanga, invece, c’è sempre stato un rapporto particolare, una sensazione speciale. Nel 2013-14 Simone Moro mi invitò a tentare la salita in inverno, quando nessuno l’aveva ancora fatta. Poi, negli anni successivi, sono tornato più volte: con Hervé Barmasse, in stile leggero, poi d’estate, quando ho deciso che non era necessario complicarmi la vita ancora di più. Ogni volta la motivazione cambiava, ma cresceva. Alla fine, dopo tanti tentativi, l’ho salita nel 2025, sempre lungo la via Schell, sul versante Rupal. E l’ho fatto con un desiderio preciso: salire un ottomila senza ossigeno, corde fisse, sherpa o infrastrutture. Solo una piccola squadra, in autonomia. In questo senso la Rupal è stata una scuola lunga dieci anni, una montagna che ti insegna più di quanto tu pensi di imparare.
L’alpinismo himalayano oggi è spesso dominato da logiche commerciali e dall’ossessione per il risultato. Lo stile alpino è ancora compreso o è ormai una nicchia?
Sicuramente è una nicchia, ma è viva. Lo stile alpino è qualcosa di complesso, non una definizione rigida. Noi, sul Nanga Parbat, siamo prima saliti fino a 6.000 metri per depositare del materiale e controllare le condizioni. Per i puristi questo non è più stile alpino. Ma, secondo me, la vera questione è la trasparenza.L’importante è dire chiaramente come si è salito. Sull’Everest, per esempio, ho usato corde fisse perché non è possibile farne a meno: non si è mai davvero soli su quella montagna. Ho scelto di non usare ossigeno, di non avere sherpa né supporto, ma non potrei dire di averlo scalato in “solitaria”, c’erano altre 600 persone intorno a me! L’onestà nel raccontare ciò che fai, e il perché lo fai, è ciò che dà valore a una salita. Se non sei fedele a questo, anche la vetta perde significato.
Per me, ciò che conta davvero sono i valori, non la vetta. Il modo in cui scegli di salire dice chi sei molto più della quota che raggiungi. Ho dovuto lavorarci tanto, anche con il mio mental coach: capire che la coerenza con i miei principi vale più di una cima raggiunta in fretta.
Avrei potuto salire il Nanga Parbat dal versante normale, con mille aiuti, e probabilmente avrei avuto successo molto prima. Ma non sarebbe stato il mio modo. Preferisco tornare indietro fedele ai miei valori, piuttosto che arrivare in vetta tradendoli. Quando arrivi a questa consapevolezza, ti accorgi che il vero successo non è la cima: è la serenità di sapere che hai scalato nel modo in cui volevi farlo.
Hai scalato con alpinisti molto diversi tra loro: Ueli Steck, Hervé Barmasse, Simone Moro… Cosa hai imparato da ciascuno di loro?
Da ognuno ho imparato moltissimo. Mi piace osservare, ascoltare, assorbire. Con Hervé ho condiviso momenti bellissimi, con Ueli ho imparato forse più che con chiunque altro: mi ha spinto a guardare le cose da una prospettiva nuova. Con Simone ho imparato l’importanza della preparazione mentale e logistica. Due anni fa ho scalato con Benjamin Védrines, che è un fuoriclasse assoluto e ti lascia senza parole! Ogni compagno di cordata ti mostra un lato diverso dell’alpinismo e da ognuno hai qualcosa da imparare. Anche perché se pensi di sapere già tutto è proprio il momento in cui smetti di crescere.
Hai parlato spesso dell’importanza di essere ‘presenti’ in montagna, di una lucidità totale. È qualcosa che cerchi anche nella vita quotidiana?
È difficile trovarlo nella vita di tutti i giorni, ci sono troppe distrazioni. In montagna invece non puoi permetterti di pensare ad altro: devi essere completamente nel momento. È una delle ragioni per cui amo così tanto andarci. La montagna ti obbliga a essere presente, e quella presenza piena è una forma di libertà. Forse è per questo che, quando torno a valle, sento sempre un leggero senso di nostalgia: quella chiarezza mentale, nella vita quotidiana, è quasi impossibile da replicare.
Nelle spedizioni himalayane la linea tra coraggio e imprudenza è sottile. Come capisci quando è il momento di fermarti?
Non è mai facile, ma con gli anni impari ad ascoltare quel ‘qualcosa’ che ti dice che non va. Io ho imparato a rispettare quella sensazione, a non forzarla. Spesso è solo l’accumulo di esperienze che ti parla. Cerco sempre di analizzare perché ho paura, e di parlarne apertamente con i compagni di cordata. Credo anche che dovremmo imparare a valorizzare di più le storie di chi si ferma, di chi torna indietro. Si scrive troppo poco delle spedizioni che non arrivano in cima. Ma sono parte del gioco, e spesso sono quelle che ti insegnano di più. Tornare indietro non è una sconfitta, è una decisione di vita.
Hai un mental coach con cui lavori da tempo. Cosa ti ha dato quel percorso?
Tantissimo. È un vero e proprio allenamento, come quello fisico. Il cervello è il muscolo più importante per un alpinista. Lavoriamo sui miei valori, sui miei obiettivi e facciamo debriefing dopo le spedizioni. Ad esempio, nel 2023 quando sono tornato indietro dal tentativo al Nanga con Benjamin Védrines, abbiamo analizzato a fondo le decisioni prese. Quel giorno ho deciso di fermarmi, anche se stava andando tutto bene, e per l’ego è stato durissimo. Ma poi ho capito che era la scelta giusta. In montagna non si perde una partita: se sbagli, resti lì per sempre. Lavorare sulla mente mi aiuta a essere più lucido, più onesto e anche più gentile con me stesso quando le cose non vanno come previsto.
Preferisci scalare da solo o in squadra?
Dipende, ma in generale preferisco una buona squadra. Quando il gruppo funziona, è una delle esperienze più belle. Diciamo che non sono stato abbastanza fortunato da scalare tutta la vita con lo stesso compagno, ma abbastanza fortunato da trovare ogni volta dei soci con cui stare bene. Certo, allenarmi da solo mi serve per conoscermi meglio e capire i miei limiti, ma sulle grandi montagne la condivisione fa la differenza.
Come è cambiato il tuo rapporto con la paura negli anni?
Non direi che la paura sparisce, ma impari a gestirla meglio. Non mi considero un alpinista temerario: ho molto rispetto, che è diverso dalla paura. Non cerco di scacciarla, piuttosto la ascolto e provo a capire da dove viene. A volte non ha neppure a che fare con la montagna: può dipendere da quello che vivi nella vita personale, dal peso delle responsabilità, dalla famiglia. Accettarla, non negarla: è questo che ti mantiene lucido.
Come scegli i tuoi progetti?
È sempre una combinazione di fattori: la bellezza della montagna, la storia, il partner giusto. Alcune cime mi attraggono per motivi precisi — l’Everest per la quota estrema, il Nanga per la sua storia — altre solo per la linea o per la sensazione che mi trasmettono. Non mi interessa minimamente salire tutti i 14 ottomila, ma certo ne ho ancora alcuni in mente. Mi piacerebbe affrontarne uno in inverno, in stile alpino, o magari decollare in parapendio direttamente dalla vetta. Ma ci sono anche tanti seimila e settemila nel mondo che mi incuriosiscono. Non è questione di collezionare vette, ma di seguire la motivazione giusta.
Hai contribuito allo sviluppo dell’ultima collezione di The North Face. In che modo la tua esperienza in montagna ha influenzato quel lavoro?
È stato un progetto bellissimo. Si chiama Advanced Mountain Kit, per noi atleti è un po’ la Formula 1 dell’abbigliamento da montagna. Collaboro con The North Face dal 2019 su questo sviluppo: insieme ad altri atleti abbiamo potuto davvero dire la nostra su ogni dettaglio, dal taglio delle zip alla leggerezza dei materiali. È un equilibrio continuo tra funzionalità, peso e durata. A volte non tutte le idee sono realizzabili, ma il processo di confronto è incredibilmente stimolante.
Mi piace metterci le mani davvero: ho una macchina da cucire a casa, e d’inverno passo spesso nel laboratorio The North Face di Annecy, dove provo a costruire da solo zaini, tende, piccoli accessori. È una parte del mio modo di essere alpinista: capire a fondo gli oggetti che usi, conoscere il perché di ogni cucitura. Così come in montagna cerco la leggerezza, anche nei materiali voglio arrivare all’essenziale, a ciò che serve davvero.





