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Mio padre Hermann Buhl

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"Avrei voluto intitolare il libro ‘La moglie dell’alpinista’, perché il mio racconto riflette la storia di molte donne che sono vissute al fianco di uomini avventurosi. A volte però esso ricorda piuttosto la ricerca delle tracce di mio padre, che io ho perso così presto. In verità il libro è entrambe le cose: ricerca del padre e omaggio alla madre". Ma non solo. Nel ripercorrere la vita della famiglia Buhl, Kriemhild mostra anche il lato umano dell’uomo passato in fretta alla dimensione del mito.

Quando Genie, o Generl come la chiama affettuosamente Hermann, è incinta della loro prima figlia, scala con il marito il Pizzo Palù, il Bernina e poi la Marmolada. Sono i primi anni di vita insieme. Sono due spiriti avventurosi. E felici.

E’ il 1954. Un anno dopo il Nanga Parbat, Hermann è un alpinista famosissimo. Generl dà alla luce la seconda figlia, Silvia. Se fosse stata maschio si sarebbe chiamato Hermann. Passa poco tempo, e nella famiglia Buhl arriva Ingrid, la terza figlia. Lui però vorrebbe tanto un maschietto.

Da questo momento crescono le frustrazioni di Hermann, a volte saltano i nervi. Non ha più tempo per fare tutto: curare la famiglia, lavorare e andare in montagna. E poi scrivere il suo libro, quello che avrebbe raccontato la sua verità sul Nanga Parbat. Per lui che "scrivere è come arrampicarsi sulla carta".

Arriva il ’57 ed è prima di tutto l’anno del Broad Peak. "Hermann, il minimalista – racconta Kriemhild Buhl -, ha un’idea audace per questa montagna: prenderla spostando i campi, il cosiddetto stile alpino. Senza equipaggiamento dispendioso, senza portatori d’alta quota e ovviamente anche senza le bombole d’ossigeno".

E poi dopo la seconda memorabile conquista, quel 27 giugno 1957. Chogolisa. Hermann Buhl è a 300 metri dalla vetta solo con Kurt Diemberger. "Il giorno più bello dall’inizio della spedizione", l’aveva definito lui stesso poche ore prima del disastro, poche ore prima che si scatenasse la bufera e quella cornice di neve cadesse giù. E si portasse via l’alpinista e soprattutto l’uomo.

E’ quello lo spartiacque inevitabile di un prima e un dopo, in vita e in morte di Hermann Buhl. Da allora il mondo delle donne Buhl è cambiato: comincia una cammino senza un padre ma nel nome e nell’ombra del grande alpinista.

"Gli alpinisti estremi sono dei fanatici – dice Kriemhild Buhl -. Devono esserlo. Senza questa ossessione non si può raggiungere la meta, che richiede molte rinunce e un grande dominio di sè".

"E’ proprio così – le fa eco Kurt Diemberger nella sua emozionante prefazione al libro -: per anni – con quasi 3 spedizioni all’anno – ho vissuto anch’io le stesse cose e devo confessarlo: noi ossessionati sappiamo che cosa pretendiamo dalla famiglia. A volte tutto. Noi succhiamo l’energia da chi ci sta vicino, centriamo il nostro prossimo su noi stessi, ne facciamo provvisoriamente dei satelliti. C’è però anche l’altro lato della medaglia. In cambio portiamo molta luce. La nostra passione è contagiosa. Noi condividiamo con loro i nostri sogni. Finchè viviamo…"

"Mio padre Hermann Buhl", scritto dalla primogenita del grande alpinista e uscito in Italia lo scorso gennaio edito da Cda&Vivalda, è una testimonianza dalle molte valenze. Mette a fuoco nuovi aspetti di uno dei più grandi nomi dell’alpinismo. Riporta a galla tratti della sua vita intima e familiare. Restituisce la giusta luce alle persone che gli erano intorno.

E’ la voce dall’interno di un mondo che spesso non si esprime e che pure esiste, soffre e gioisce in disparte. Quello delle mogli, delle madri e dei figli. 

                

       
Valentina d’Angella

 

 

Titolo: Mio padre Hermann Buhl
Autore: Kriemhild Buhl – traduzione di Marina verna
Casa editrice: Cda&Vivalda – collana I Licheni
Pagine 240 + 16 tavole fuori testo
Prezzo: 23 euro

 

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