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Settembre 1975, vittoria sulla parete Sud-ovest dell’Everest

Al tramonto del 24 settembre 1975, Dougal Haston e Doug Scott arrivano in cima all’Everest per la parete Sud-ovest. Due giorni dopo, la vittoria della spedizione Bonington si completa con l’arrivo di Pete Boardman e del sirdar Petremba. Mick Burke, però, scompare sulla cresta sommitale

La sera del 23 settembre 1975, due alpinisti ammirano il tramonto dal balcone più alto del mondo. Dougal Haston, cordata di punta della spedizione diretta da Chris Bonington, sono in una tenda a 8300 metri di quota, sulla parete Sud-ovest dell’Everest. Tra loro e la vetta sono cinquecento metri di rocce rivestite di neve instabile, in basso la parete precipita verticale.
Mentre il compagno scioglie la neve per preparare la cena, Scott guarda il campo-base avanzato duemila metri più in basso. “C’erano persone che si muovevano tra le tende, impegnate a preparare il campo per la notte. Altri erano divisi in piccoli gruppi, prima di rintanarsi nelle tende”. 

Il giorno prima, i due hanno installato la tenda dell’ultimo campo. Hanno portato viveri e materiale Bonington, Mick Burke, Mike Thompson e gli Sherpa Ang Phurba (“il più talentuoso e forte della squadra”), Pertemba e Tenzing.
A risolvere il tratto-chiave della parete, due giorni prima, erano stati Nick Estcourt e Paul “Tut” Braithwaite, risalendo il canalone che incide la Rock Band, la fascia di roccia che sembra sbarrare la parete. Uno strapiombo ha regalato loro un passaggio che sarebbe stato difficile anche in Scozia. 

Poi tocca a Haston e Scott. Il 23 settembre attrezzano la via lungo una rampa di neve che sale verso la Cima Sud. Mentre Dougal srotola una corda da 130 metri, il compagno lo assicura avvolto nel sacco a pelo. Le condizioni non sono né facili né sicure.
Un passaggio di quinto, su una placca di roccia inclinata, precede un tratto di neve profonda e instabile, sotto al quale affiora un altro lastrone roccioso. Haston scava nella neve con le mani, trova una fessura, pianta un chiodo che “non avrebbe mai tenuto un volo”. Si appende alla corda, pendola, raggiunge della neve “vagamente migliore” e prosegue. 

Su un nuovo passaggio di roccia, una fessura che accoglie due buoni chiodi significa che la via verso la cima è aperta. Poi la neve migliora davvero, e la pendenza diminuisce. Quando Doug Scott raggiunge il compagno, e il primo chiodo esce senza bisogno del martello, sibila dietro alla maschera dell’ossigeno nasty stuff, youth!”, “brutta roba, ragazzo!”
Quando la spedizione Bonington tenta la Sud-ovest dell’Everest, l’alpinismo himalayano ha iniziato a cambiare. Grazie a Reinhold Messner e agli inglesi, gli alpinisti di punta hanno iniziato ad abbandonare i respiratori e a tentare le pareti più ripide degli “ottomila”, come la Sud dell’Annapurna e la Rupal del Nanga Parbat. 

I tentativi infruttuosi di alcuni tra i più forti del mondo

La Sud-ovest dell’Everest, che domina la via normale dal Nepal, è una sfida evidente. In basso è formata da un interminabile scivolo di neve e ghiaccio, in alto una rampa conduce alla Cima Sud. Una fascia di rocce la sbarra tra i 7900 e gli 8200 metri. Il primo tentativo, nel 1969, viene compiuto da un team giapponese che comprende l’alpinista ed esploratore Naomi Uemura, e che si ferma 7900 metri. Un anno dopo, raggiungono la stessa quota 39 alpinisti del Sol Levante e 77 Sherpa. Nel 1971, i litigi fermano la spedizione internazionale che comprende il tedesco Toni Hiebeler, il francese Pierre Mazeaud, i britannici Dougal Haston e Don Whillans, l’italiano Carlo Mauri, gli svizzeri Michel e Yvette Vaucher e di nuovo Naomi Uemura. Haston e Whillans arrivano a 8200 metri. 

Nel 1972 tenta un team britannico diretto da Bonington, e che comprende Haston, Scott, Nick Estcourt, Mick Burke e Hamish MacInnes, mito dell’alpinismo scozzese. E’ lui a disegnare le Super Box, tende poggiate su piattaforme di metallo e “blindate” contro i sassi che cadono. Ma il maltempo costringe la spedizione a rientrare. 

La spedizione vincente

Tre anni dopo, alla testa di una squadra ancora più forte, Bonington torna sulla parete dopo il monsone. Invece di tentare la fascia rocciosa sulla destra, la supera al centro per il canale vinto da Estcourt e Braithwaite. Il 24 settembre, Haston e Scott partono quando il cielo inizia a schiarire.
“C’è qualcosa di surreale a trovarsi in alto sull’Everest, a quest’ora. Sei solo, chiuso nella maschera, con il ritmico rumore del tuo respiro che ti echeggia nelle orecchie” scrive Haston. Alla fine della corda fissa i due si legano in cordata, e Dougal batte pista in un ripido canale. La neve, “per essere in Himalaya non è particolarmente cattiva, una polvere profonda fino al ginocchio, con qualche passo che ti fa pensare perché i ramponi toccano la roccia sottostante”.
Doug Scott sale da primo una parete di roccia giallastra che sbarra il canale. Pianta tre chiodi, “sperando che almeno uno possa tenere”. In alto si vede lo Hillary Step, ma i due continuano a destra, per una rampa di neve dove si sprofonda fino alla vita. Escono sulla Cima Sud al tramonto, e proseguono. 

Il monsone ha trasformato lo Hillary Step in un muro di neve, impressionante ma facile. Sugli 8848 metri della cima, accoglie i britannici un treppiede lasciato da un team cinese, a est il Kangchenjunga è illuminato dagli ultimi raggi di sole. “Ragazzo, fai uno scatto per mia madre?” chiede Scott mentre porge la macchina fotografica a Haston.
I due tornano alla Cima Sud al buio, e bivaccano in un buco scavato con le piccozze nella neve. Il fornello permette di bere dell’acqua tiepida. “Non eravamo preoccupati di morire, ma tutti quelli che avevano bivaccato a questa quota avevano subito amputazioni” scriverà Doug. Ma tutto va bene. Alle 9, trenta ore dopo averla lasciata, tornano alla tenda e collassano nei sacchi a pelo.

La seconda cordata

L’indomani, mentre la cordata vittoriosa scende, Martin Boysen, Pete Boardman, Mick Burke e il sirdar Pertemba salgono all’ultimo campo per un secondo tentativo alla cima. Bonington in basso ha paura, e quando sa che Burke è arrivato alla tenda in ritardo, gli ordina di non partire per la vetta. Ma Mick risponde per le rime.
“Quando gli alpinisti arrivano all’ultimo campo sull’Everest sono indipendenti. Fino a lì sono membri di un team, ma il tentativo alla cima è come un’ascensione sulle Alpi. Hanno la loro vita nelle mani, e solo loro possono decidere cosa fare” scriverà Chris. 

La mattina del 26 le nuvole salgono verso l’Everest. La perdita di un rampone e un guasto al respiratore costringono Boysen a rinunciare. Boardman e Pertemba salgono di buon passo, sui gradini lasciati dai primi due. Arrivano sulla Cima Sud con il sole, continuano nella nebbia, si accorgono di essere in cima quando vedono il treppiede cinese. 

Quando iniziano a scendere sono quasi le 14. Sotto allo Hillary Step incontrano Mick Burke, che è il cameraman della spedizione e chiede agli altri di risalire in vetta con lui. Boardman e Pertemba decidono di aspettarlo sulla Cima Sud, ma il tempo peggiora e, come scrive Pete “tutti i venti dell’Asia cercano di strapparci dalla cresta”. 

Quando manca un’ora al tramonto Mick non c’è ancora, e Pete decide di scendere lasciando un fornello sulla Cima Sud. La discesa diventa una lotta per la vita, e le slavine strappano un tratto della corda fissa. Alle 19, quando ritrova Martin Boysen al campo, Pete scoppia in un pianto dirotto. Nella notte, la bufera si porta via la speranza che Mick possa rientrare da solo. “E’ morto, povera Beth, povera Sarah!” urla alla radio Martin Boysen. “Nella nebbia, con le cornici della cresta, era facile fare un passo falso e cadere. Se avesse bivaccato, l’indomani con quel tempo non sarebbe riuscito a scendere. Ma io avrei fatto come lui” rifletterà Bonington. “Abbiamo accettato il dolore per la morte di Mick, perché il nostro gioco di alpinisti comprende questo rischio”.  

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