
Ventuno anni fa, a Madonna di Campiglio, ho vissuto un momento doloroso. Qualche settimana prima avevo scritto su Specchio, il settimanale de La Stampa, del rapporto dell’alpinista argentino Rolando Garibotti sulla prima salita del Cerro Torre. Un documento pubblicato sull’American Alpine Journal, e che dimostrava come, nel 1959, Cesare Maestri e Toni Egger non avessero raggiunto la vetta.
Qualche anno dopo lo stesso “Rolo”, con i trentini Ermanno Salvaterra e Alessandro Beltrami, avrebbe completato la dimostrazione scendendo in doppia lungo la via senza trovare nemmeno un segno di passaggio. Nel 2004, però, quello che Garibotti aveva scritto già bastava. Andai a trovare Cesare Maestri, un personaggio che adoravo, che consideravo un mito dell’alpinismo e non solo, e con che avevo già intervistato varie volte.
Per dovere di cronaca, avevo già parlato con Daniele Chiappa, uno dei protagonisti nel 1974 della prima vera ascensione del Torre insieme ad altri tre Ragni di Lecco. Ma lui, da vero signore, si era schermito. “Non siamo noi a poter giudicare cosa è successo sugli altri versanti della montagna”. Poi andai dal Cesare, e l’intervista durò meno di un minuto. Bastò la parola Garibotti, e lui mi buttò fuori dal negozio a pedate.
Sapevo bene, già prima di quell’incontro a Campiglio, che chiedere a un alpinista se una delle sue prime ascensioni sia autentica o meno era (ed è) una domanda difficile. Nel 1990, su Repubblica, avevo intervistato Tomo Česen subito dopo la sua prima ascensione della parete Sud del Lhotse, per poi scoprire le durissime contestazioni dei francesi.
Fin da quando Marco Confortola ha annunciato di aver completato sull’Hidden Peak (o Gasherbrum I) la collezione dei 14 “ottomila” della Terra, ho seguito sui social le proteste del collega Alessandro Filippini e non solo, che sono salite di tono quando la notizia è stata ripresa dal TG1 e da altre testate nazionali.
Mi sarebbe piaciuto intervistare Confortola per Montagna.tv, ma non ci sono riuscito. Qualche giorno dopo, sulle pagine de Lo Scarpone, ho letto con grande attenzione l’inchiesta di Guido Sassi, che ha intervistato Silvio “Gnaro” Mondinelli e altri alpinisti, e ha apertamente contestato le ascensioni di Confortola al Kangchenjunga e all’Annapurna.
Lo Scarpone non è un sito qualunque, ma un organo ufficiale del Club Alpino Italiano. L’attacco a Confortola è stata dunque un’operazione condivisa dal CAI e dal suo presidente generale Antonio Montani, che infatti nel servizio interviene con un giudizio durissimo.
Nei giorni successivi, con l’intervista rilasciata da Simone Moro a Giampaolo Visetti di Repubblica, la contestazione agli “ottomila” di Confortola si è allargata al Nanga Parbat, al Dhaulagiri, al Nanga Parbat e al Makalu.
Sulla sua pagina Facebook, importante per chi segue l’alpinismo himalayano, Alessandro Filippini ha mostrato come le foto di vetta pubblicate da Confortola per il Kangchenjunga e per il Lhotse siano quasi certamente dei fake realizzati con photoshop o con programmi simili.
Giovedì 14 agosto, infine, sempre sulla sua pagina FB, Sandro attacca i “siti di montagna” che, dopo essersela presa nel 2019 con dei “photoshoppatori indiani”, “oggi tacciono davanti alle finte foto di vetta di un italiano”. Il riferimento a Montagna.tv, (che comunque aveva già espresso i suoi dubbi il 21 luglio scorso, preannunciando le polemiche che sarebbero inevitabilmente arrivate, n.d.r.) è evidente. Ma ha senso?
Se ho iniziato raccontando il mio dolore nel contestare al grandissimo Cesare Maestri la sua bugia sul Cerro Torre, è perché quella storia mi ha insegnato che contestazioni di quel tipo possono essere dolorose (e molto!) per gli alpinisti interessati.
Non sono mai andato in cerca di scoop fine a sé stessi. Faccio questo mestiere da abbastanza anni per sapere che, se un’altra testata ti batte e racconta una storia prima di te, la cosa migliore da fare è stare zitti per un po’, leggere e seguire quel che accade, congratularsi con la concorrenza (non siamo mica in guerra, o mi sbaglio?). Poi si trova sempre il modo di tornare sull’argomento, di raccontare da un nuovo punto di vista, e si va avanti.
In più, e lo dico con chiarezza, accusare di falso un alpinista (Cesare Maestri ieri, Marco Confortola oggi) può essere un dovere giornalistico ma resta estremamente doloroso. Ho incontrato l’alpinista di Valfurva poche volte, ho il massimo rispetto per le sue sofferenze sul K2 e per la maestrìa alpinistica con cui è riuscito a tornare al campo-base vivo, anche se con dei congelamenti tremendi.
Parlando con Marco, leggendo i suoi libri e ascoltando le sue conferenze pubbliche ho notato più volte la frase “basterebbe un’altra piccola amputazione per impedirmi di camminare per sempre”. Parole che mi fanno pensare che, oltre gli 8000 metri di quota, la paura di farsi davvero del male irreparabile possa spingere Confortola a scendere prima possibile, a costo di non raggiungere la vetta. Ma un pensiero è ben diverso da una prova.
Qualche anno fa, parlando con Fausto De Stefani e con Sergio Martini, ho ricostruito la loro ascensione al Lhotse del 1997, contestata da un alpinista coreano che era riuscito a convincere miss Elizabeth Hawley, all’epoca sola depositaria della verità delle ascensioni himalayane.
Sergio ha accettato la contestazione, e qualche anno dopo è tornato sulla vetta del Lhotse, Fausto ha preferito dire basta e restare a 13 “ottomila” nell’elenco ufficiale. Ma il punto non è soltanto il numero. Più volte, su Alp e poi su altre testate, ho scritto che nei casi contestati come quello di Martini e De Stefani era giusto trovare un “tribunale d’appello” in grado di approfondire il giudizio.
Oggi, rispetto a un quarto di secolo fa, abbiamo i tracker che indicano la posizione di ogni alpinista in tempo reale, e i “certificati di vetta” delle agenzie. La polemica scatenata tre anni da Eberhard Jurgalski e ripresa dal Guinness dei primati, che sembrava voler negare a Reinhold Messner la prima collezione dei 14 “ottomila”, sembra essersi chiusa con un compromesso accettato da tutti.
Per le ascensioni storiche un po’ di tolleranza ci vuole, per quelle di oggi il tracker (o la foto di vetta) sono necessari. E quando non sono tutti d’accordo? Negli anni scorsi, su Alp e altrove, ho scritto che l’unico ente ad avere un’autorevolezza sufficiente è l’UIAA, l’Unione Internazionale delle Associazioni Alpinistiche, nella quale il CAI è rientrato da tre anni dopo un periodo di assenza.
Non è possibile, cari signori dell’UIAA, creare una specie di Corte di appello, formata da alpinisti autorevoli, alla quale sottoporre i casi di ascensioni contestate agli “ottomila” e alle altre vette più importanti della Terra?
Gli Sherpa e i proprietari delle agenzie (Seven Summit Treks, Imagine Nepal, Elite Exped ecc…) possono avere degli interessi economici in ballo, i redattori dell’Himalayan Database e di altri elenchi non hanno la forza di chiedere prove ai protagonisti. I Club Alpini, invece, hanno l’autorevolezza e l’esperienza per provarci. Oppure no?