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Luis Trenker, inimitabile cineasta delle montagne

A oltre trent’anni dalla morte, l’artista di Ortisei continua a essere un’icona della cinematografia di montagna e un esempio raro di fedeltà a un mondo - quello alpino - vissuto come fondamento estetico, etico ed esistenziale

Chi frequenta la Val Gardena con occhi allenati a riconoscere storie, segni e nomi del territorio, si sarà imbattuto più volte in quello di Luis Trenker. Lo si legge su targhe commemorative, sentieri, mostre e perfino in un marchio di moda che porta la sua effigie in stile rétro. Ma dietro quel nome c’è molto più di un omaggio al passato: c’è la storia fuori dall’ordinario di un uomo che è stato capace di trasformare la montagna in racconto visivo, riuscendo – con i suoi film, le sue parole e la sua presenza scenica – a darle voce e corpo sul grande schermo.

È raro, oggi come allora, che un artista di madrelingua ladina riesca a lasciare un’impronta così duratura nella cultura europea e internazionale. Eppure, nel corso del Novecento, da Ortisei sono partite almeno due voci capaci di attraversare le Alpi e giungere oltreoceano: quella musicale e cosmopolita di Giorgio Moroder, e quella cinematografica, rude e autentica di Luis Trenker. Se il primo continua a rivoluzionare la disco music, il secondo ha contribuito in modo decisivo a plasmare un immaginario della montagna fatto di purezza, eroismo e legame inscindibile con la Heimat.

Le montagne in fiamme: guerra, cinema e identità

Alois Franz Trenker nasce a Ortisei nel 1892, da padre tirolese e madre ladina. Guida alpina e maestro di sci già da ragazzo, studia architettura a Vienna, ma il suo destino si modella sul fronte della Grande Guerra, dove combatte prima in Galizia e poi sulle Dolomiti. È lì che conosce il volto tragico della montagna, non più solo paesaggio da scalare ma teatro di sopravvivenza e resistenza. Quei ricordi torneranno nei suoi romanzi e nei suoi film, a partire da Berge in Flammen (Montagne in fiamme), uno dei primi tentativi europei di trasformare il paesaggio alpino in narrazione epica. Il passaggio al cinema, tuttavia, avviene quasi per caso nel 1921, quando viene chiamato a sostituire un attore incapace di arrampicare sul set del film Berg des Schicksals di Arnold Fanck. La riuscita della sua interpretazione, unita alla sua naturale presenza scenica, segna l’inizio di una nuova traiettoria professionale. Da quel momento, Trenker inizia infatti a dedicarsi con crescente intensità al grande schermo, fino a diventare regista, sceneggiatore e interprete delle proprie opere, sviluppando un linguaggio personale fortemente radicato nella cultura montanara.

La sua firma stilistica si oppone al disincanto urbano e alla modernità decadente: al centro ci sono sempre le cime, gli uomini che le abitano e le tradizioni che resistono. Non si tratta di folklore, ma di una vera e propria filosofia visiva: la montagna come misura dell’uomo e insieme come rifugio etico. Non stupisce che tanto il regime fascista quanto quello nazionalsocialista abbiano tentato di strumentalizzarne l’opera, riconoscendovi un’estetica “völkisch” capace di esaltare radici e identità. Ma Trenker, artista individualista e profondamente cristiano, seppe sempre mantenere una distanza critica, rifiutando la propaganda più sfacciata e pagando, per questo, anche il prezzo dell’isolamento. Nel 1939, durante la drammatica stagione delle Opzioni, si rifiutò di schierarsi apertamente a favore del Reich, guadagnandosi l’ostilità di Goebbels. Trasferitosi a Roma, dove sperava in condizioni più favorevoli, girò alcuni documentari, fra cui Pastor Angelicus (1942), prima di fare ritorno a Bolzano nel 1943.

Oltre la vetta: il lascito culturale di Luis Trenker

Nel dopoguerra, in un Alto Adige attraversato da tensioni e sospetti reciproci, Trenker venne guardato con diffidenza: troppo vicino a Roma per alcuni, troppo ambiguo per altri. Ma a partire dagli anni Cinquanta riuscì a recuperare prestigio, anche grazie alla televisione tedesca, che gli affidò format come Luis Trenker erzählt e, più avanti, Berge und Geschichten, in cui narrava episodi della sua vita intrecciati a storie di montagna. Non semplici documentari, ma confessioni poetiche, dense di immagini e radicate nel paesaggio alpino. A Ortisei, il Museum Gherdëina custodisce una preziosa sezione dedicata a lui, tra premi cinematografici, oggetti personali e fotografie che ne raccontano la traiettoria straordinaria. E nel 1995, a cinque anni dalla sua morte, è nata la casa di moda Luis Trenker, che ne recupera lo stile e lo spirito mitteleuropeo.

Trenker fu anche sportivo: partecipò alle Olimpiadi invernali di Chamonix nel 1924 nel bob a quattro, classificandosi sesto. E fu legato sentimentalmente a Leni Riefenstahl, regista ufficiale del nazismo. Un nodo biografico controverso, che non impedì però al suo nome di tornare più volte al centro del dibattito culturale, come nel 2015 con Der schmale Grat der Wahrheit, film in lingua originale diretto da Wolfgang Murnberger con Tobias Moretti nei suoi panni. Un aneddoto spesso dimenticato: agli esordi del cinema italiano, anche Pier Paolo Pasolini – allora solo scrittore – collaborò come soggettista ad alcune pellicole, fra cui quelle di Fellini, Piccinini e proprio Luis Trenker. Segno che attorno a quella figura si intrecciavano, fin dagli anni Cinquanta, le traiettorie più inattese della cultura visiva.

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