Storia dell'alpinismo

2005, il capolavoro di Steve House e Vince Anderson sul Nanga Parbat

Una settimana di fatica per un’ascensione straordinaria. Vent’anni fa, aprendo una nuova via sulla parete più alta del Nanga Parbat, i due statunitensi (House è dell’Oregon, Anderson del Colorado) entrano nella storia dell’alpinismo

In un pomeriggio di settembre del 2005, due alpinisti americani completano un’ascensione straordinaria. Un passo dopo l’altro, Steve House e Vince Anderson escono da una delle pareti più grandi e pericolose della Terra. Arrivano sugli 8125 metri del Nanga Parbat nel pomeriggio, mentre l’ombra inizia a riempire le valli. Sono distrutti da cinque giorni di arrampicata sulla parete Rupal, la più ripida della montagna. La vittoria, prima di renderli felici, li turba. “Prima della vetta mi inginocchio, sopraffatto dall’emozione”, annota Steve. 

“Questo viaggio fisico e mentale di anni – per arrivare a essere abbastanza forte, per scoprire se ho abbastanza coraggio – si chiude qui, in questo istante. Calpestare la cima mi sembra un sacrilegio” prosegue. Poi i due si abbracciano sulla vetta, e piangono. “Lacrime ghiacciate scivolano ai miei piedi unendosi alla neve, diventando parte di questa montagna, come lei era diventata parte di me tanti anni fa”. “Passiamo un quarto d’ora a goderci la vittoria” annota più sobriamente Anderson su Alpinist. Quando i due si lasciano alle spalle la cima inizia una discesa pericolosa e difficile, che richiede due giornate di tensione e fatica.
Vince Anderson, nato in Colorado, è un alpinista molto forte. Ma Steve House, dell’Oregon, è già tra i migliori del mondo. Scopre l’alpinismo in Slovenia e il Nanga Parbat nel 1990, a vent’anni, con una spedizione diretta alla via Schell, al margine della parete Rupal.
Non va oltre i 6400 metri, ma si affaccia sulla muraglia che è stata vinta da Reinhold e Günther Messner. Günther, il più giovane dei due fratelli altoatesini, è stato ucciso da una valanga in discesa. Un altro itinerario è stato tracciato nel 1984 da polacchi e messicani. Ma Steve pensa a una via ancora più diretta.

Il tentativo del 2004

Torna alla base del Nanga Parbat nel 2004. È un momento difficile della sua vita, ha divorziato da poco, vive in un furgone, ha bisogno di stare da solo. Nei giorni precedenti, in solitaria, ha tracciato una via di due chilometri e mezzo di sviluppo sui 6934 metri del K7, una vetta a sud del ghiacciaio Baltoro.
Vorrebbe tentare il Nanga da solo, poi il connazionale Bruce Miller gli propone di salire insieme. I due superano veloci la parte bassa della parete, poi le energie fisiche e mentali finiscono. Steve rallenta senza accorgersene, costringe il compagno ad aspettarlo per un’ora. È Bruce a proporre di scendere, quando i due sono a 7600 metri, a una giornata dalla vetta, e gli alpinisti diventano degli estranei. “Non esiste una cordata tra noi, non esiste una comunione, solo convenienza. Mi chiedo chi è quest’uomo”, annota Steve House. 

Sei giorni in parete prima di toccare la vetta

Un anno dopo l’atmosfera è più serena. Con Vince Anderson, che ha conosciuto in Alaska ma con il quale non ha mai condiviso una spedizione, Steve attacca la parete Rupal con più serenità e più forza. Il 31 agosto, dopo settimane in attesa del bel tempo, i due salgono per millecinquecento metri di dislivello fino alla crepaccia terminale. Hanno un minimo di equipaggiamento tecnico, e cibo e combustibile per una settimana. Gli zaini pesano una quindicina di chili. 

Ripartono a mezzanotte, alla luce delle frontali. Superata la crepaccia, risalgono uno sperone al sicuro dalle valanghe. Poi traversano a destra, per bivaccare a 5100 metri di quota, alla base di un secondo sperone. L’indomani la sua risalita, con rocce rivestite di ghiaccio di cascata, offre l’arrampicata più difficile della via. Vince, nel tiro di corda più duro, si fa calare e lascia che Steve prosegua da capocordata, dopo aver lasciato alla base lo zaino. Dopo dieci ore di scalata, i due bivaccano in un luogo “semiprotetto” dalle valanghe. Neve, ghiaccio e pietre passano a pochi metri da loro.
La mattina successiva, una veloce traversata ai piedi di canaloni minacciati da seracchi in bilico porta i due alpinisti a un terzo sperone. “Qui abbiamo avuto la piacevole sorpresa di trovare una bellissima arrampicata mista, e poi delle goulotte di ghiaccio” scriverà Anderson. 

Il quarto giorno, con tempo sempre perfetto, si fa sentire la quota. Dopo una dei tiri di corda difficili (alla fine di uno di questi Steve si ferma e vomita), i due raggiungono un ghiacciaio sospeso e piazzano la loro tendina ai piedi di un seracco strapiombante. Qui, finalmente, si concedono un pomeriggio e una notte di riposo.
La mattina successiva si rimettono in moto senza fretta, e raggiungono la base di una parete rocciosa, a 6500 metri di quota. Proseguono per una colata di ghiaccio sulla sinistra, poi traversano a sinistra, raggiungono una cresta, cercano un punto per sistemare la tenda. All’improvviso la neve si stacca sotto ai piedi di Steve, ma lui riesce a non volare piantando la piccozza a monte del distacco. Il bivacco, secondo Vince, è “esilarante”. 

L’indomani la pendenza diminuisce, e dopo alcuni tiri di corda non difficili i due alpinisti affrontano dei facili pendii di neve, dove raggiungono la via Messner. Piantano la tendina a 7400 metri di quota, dormono poco a causa della quota, ripartono a mezzanotte portando con sé soltanto barrette, bevande energetiche, e due sottilissime corde da cinquanta metri, una delle quali viene lasciata subito per ridurre il peso.
Proseguono in un canale di neve profonda e instabile, dandosi il cambio ogni cinque minuti. Ogni gradino, prima di accogliere un piede, dev’essere preparato con le mani e poi con le ginocchia. Non c’è vento, il sole brucia, il respiro affannoso fa capire che gli 8000 metri sono vicini. Steve, per un tratto, sale in maglietta.  Sotto di loro la parete è “un baratro infernale”. Poi, per la prima volta in sei giorni, un masso consente di sedersi senza doversi assicurare. Vince si addormenta di colpo, l’amico lo incoraggia a proseguire. Alle 17.30 i due sono in cima, e Steve approfitta del sole ancora caldo per togliersi le calze e farle asciugare. 

Una discesa infinita

Mentre i due iniziano a scendere il freddo e l’oscurità li avvolgono. In lontananza vedono i fuochi dei pastori intorno al campo-base. Poi, una corda doppia dopo l’altra, tornano all’ultimo campo, che raggiungono alle tre di mattina.
L’indomani una lunga serie di corde doppie, in buona parte ancorate a clessidre scavate nel ghiaccio, consente a Steve e a Vince di scendere per la via Messner. Trovano una vecchia corda fissa, non la usano per scendere, poi un altro spezzone di corda e dei chiodi indicano che quella è la via giusta.
Per l’ultima notte in parete i due piantano la tenda su un terrazzo ai piedi di un seracco, e la quota ormai modesta consente di dormire davvero. L’8 settembre, al limite del bosco, Steve e Vince vedono comparire degli uomini barbuti. Pensano che siano Talebani, urlano e tentano di scappare. Invece sono l’ufficiale di collegamento, l’aiuto cuoco e altri due pakistani, che li accolgono con tè e biscotti.
Due anni dopo, quando Steve House dà alle stampe il suo libro Beyond the Mountain (Oltre la montagna in italiano) chiede una prefazione a Reinhold Messner, che accetta e non contiene i suoi elogi. “Ammiro Steve per come affronta le montagne. Passo dopo passo è giunto ai vertici dell’alpinismo, in un’epoca in cui tutti salgono l’Everest, Steve sale le vie giuste sulle montagne giuste”.

“Ogni generazione nella storia dell’alpinismo ha dovuto reinventare sé stessa, perché la precedente ha detto “scusate, i problemi sono tutti stati risolti”, e non era così”, mi dirà Steve House in un’intervista una decina di anni dopo.  “Per me un alpinista è come un pittore di fronte a un paesaggio. Il quadro d’insieme è quello, ma sei tu a dover scegliere cosa mettere in evidenza, facendo passare da lì la tua via. La creatività è una componente fondamentale dell’alpinismo”. 

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