Storia di Oskar, guida di Solda
"Si diceva in giro che Oskar, con l’abitudine di frequentare le turiste, disdegnasse le valligiane: Oskar la vuole troppo bella, non siaccontenta delle paesane… eh no! Ma forse, era perchè fantasticando si era sposato molte volte, che nella vita reale non era mai riuscito a trovare moglie". Inizia così la seconda, avvincente puntata del racconto scritto da Enrico Farina, che ha per protagonista Oskar, storica guida alpina della valle di Solda, stavolta alle prese con il ricordo di vecchi amori e amici persi in montagna.
Forse un fondo di verità c’era anche in quelle frasi che circolavano, l’abitudine a rapportarsi con persone al di fuori della cerchia gli aveva aperto un po’ gli occhi e la mente. Le donne e le ragazze da marito non mancavano a Solda e nemmeno a S. Geltrude e parecchie, oltre a quella sana e robusta bellezza montanara, promettevano di essere mogli fedeli e madri prolifiche. Più di una lo avrebbe voluto come sposo, del resto non era malaccio. Piaceva.
Ma era visto come un burbero eccessivamente estraneo alla vita del paese. Non era cacciatore, non suonava nella banda, non frequentava la parrocchia, non si metteva mai le brache di cuoio e tantomeno il cappello piumato e a messa, lo scostumato, appariva, fugacemente solo nelle feste solenni .. e non sempre. Però piaceva.
Margarethe, se n’era invaghita e s’adoperava in tutti i modi per incontrarlo. Lui lo aveva capito e non disdegnava trascorrere qualche minuto con lei camminando lungo il torrente.Alcune volte l’aveva pure aiutata nella raccolta del fieno, in quelle rare giornate in cui, anche questa valle si lascia baciare dal caldo sole estivo e si può stare, qualche oretta, a dorso scoperto.
Come quel giorno di agosto in cui le lacrime di S. Lorenzo invitano, romantici e sognatori, ad esprimere desideri.
Erano accaldati dopo la faticosa giornata passata in balia dei raggi cocenti. E sotto quel cielo sereno e terso, Oskar, sbirciava più la seraccata della strapiombante parete nord-est dell’Ortles che lo invitava, che non il bianco seno di Margarethe che, sbucando civettuolo da un Dirndl finemente ricamato, a sua volta gli chiedeva attenzione.
Alla proposta di diventare suo marito, uscita con non poche difficoltà dalle labbra tese di Margarethe, Oskar, osservando quel viso lentigginoso che si era improvvisamente acceso di un rosso fuoco, non seppe rispondere.
Tacque più del solito diventando rigido come le rocce che scalava, avrebbe preferito essere in un profondo crepaccio che non lì davanti a quel corpo accalorato che gli chiedeva, quasi supplicando, di fondere due anime in una. “I kon net… non posso… ”
Il fatto di non sapere cosa lui stesse cercando era una grande verità. Il dubbio della sua vita. Le sue mogli irlandesi non lo impegnavano, non gli chiedevano di fare dei figli, non gli chiedevano di smettere di fare la guida per raccogliere il fieno e curare la stalla. Lo lasciavano vivere e ogni sera questo matrimonio svaniva per riaccendersi solo quando, nell’alba successiva, appariva un’altra dolce fanciulla da salvare…
Oskar guardava la foto, ormai ingiallita, che lo ritraeva sulla cima del Königsspitze: era quella preferita. I ricordi andavano lontano a quella prima salita, ripidissima, su un misto di ghiaccio e roccia che dal passaggio Bottiglia conduce, costeggiando lo spigolo, fino in cima. Anzi, oltre a questa, su quella incredibile sporgenza di ghiaccio creata dal vento. La meringa, dalla quale, in quel giorno terso si intravvedeva, lontanissimo e bluastro, il golfo di Venezia.
In quell’inquadratura c’era tutta la gioia e l’incoscienza dei sedici anni. Abbracciato all’amico Helmut, a quell’amico e compagno di cordata svanito prematuramente in un’ascensione sulla grande di Lavaredo.
Mitiche Lavaredo. Tre immense piramidi di pietra che gli riaccendevano, nella memoria delle saghe irlandesi, le vecchie sapienti: Grug, Grag e Grangait.
Una via difficile aperta negli anni trenta da Comici, sulla strapiombante parete nord, una via che, seppur impegnativa, era comunque alla loro portata.
Una fatalità. Un appiglio che si stacca, un malore o forse un momento di sopravvalutazione delle proprie capacità? Nessuno riuscì mai a scoprire cosa successe. Del volo, che lo portò a concludere i suoi giorni sui ghiaioni sottostanti, rimase solo un urlo di ghiaccio che lasciò una indelebile traccia nelle profondità recondite della memoria. Un urlo lungo che si spegneva nel baratro sottostante. Poi il silenzio di sempre. E Oskar attonito, incredulo mentre gracchi imperturbati seguitavano a sorvolarne la cima e nubi silenziose acquerellavano l’orizzonte. Pure il profumo del fieno arrivava lassù, nell’indifferenza e nel silenzio magico della natura. Un silenzio sconcertante, una vita si spegneva e miliardi di altre vite continuavano a vibrare nell’impassibilità di quell’attimo. Per Oskar fu un trauma non indifferente, anni di arrampicate insieme, gioie, sofferenze, imprecazioni, manate sulle spalle … tanti momenti condivisi su strapiombi, sull’orlo di creste affilate, nel bagliore accecante del ghiaccio, nella notte fonda lacerata dai fendenti della torcia elettrica.
Frazioni di tempo che potevano essere attimi o eternità. Lunghi momenti silenziosi, artigliando metodicamente la placca giallastra di ghiaccio vetrato, fin che, avanzando con cautela la mettevi sotto ai tuoi piedi e tornavi a respirare. O i minuti eterni per superare il tetto calcareo che, nell’intrico di corde e moschettoni, richiedeva una tecnica da acrobata con il sangue che ti pulsava nel collo teso mentre l’adrenalina saliva alle stelle.
Poi, finalmente risolto il passaggio orizzontale, tornavi alla familiarità del verticale cercando quell’appiglio sul quale ponevi tutta la tua essenza. Battiti cardiaci che ti accompagnavano con l’ansimare pesante della quota, e l’attenzione che non dovevi trascurare mai, nemmeno un attimo.
Quella stessa attenzione che Connor Crowe, della contea di Clare, mise sulla spiaggia di Anderfert nella notte in cui, inchiodato dalla paura, stette in osservazione della bara di Flory Cantillon lasciata sulla bianca sabbia. Ore gelide, con la luna che dominava metallica la scena, per scoprire i misteri che vibravano su quel luogo sinistro in cui, giaceva sepolta anche Durfulla.
Tutto questo, in quella foto avvizzita dal tempo. Ma quella foto era una finestra spalancata a più lontani ricordi. Una finestra dalla quale soffiava il vento gelido delle creste che solo lui, all’interno della stube, percepiva.
(continua)
Enrico Farina
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