
Nell’estate del 1925, due alpinisti tedeschi percorrono le Dolomiti ancora sconvolte dalla guerra. Emil Solleder, nato a Monaco di Baviera, ha fatto il cercatore d’oro in Alaska. Morirà nel 1931 sulla Meije, nel massiccio dell’Oisans, per salvare la vita del suo cliente.
Negli anni delle sue imprese dolomitiche, ha una concezione romantica dell’alpinismo. “Si rimprovera spesso all’alpinista temerario di spingere troppo in là il suo gioco. Ma un uomo estraneo a tale gioco può forse comprendere ciò che esso significa per l’alpinista?” scrive.
Fritz Wiessner, nato a Dresda, cresciuto come arrampicatore sull’arenaria dell’Elba, emigrerà negli USA nel 1935. Darà uno straordinario contributo all’alpinismo americano con le sue imprese sul Mount Waddington e sulla Devil’s Tower e con la scoperta delle pareti di granito degli Shawangunks. A renderlo famoso nel mondo sarà la spedizione del 1939 al K2, quando con lo sherpa Pasang Lama mancherà per un soffio la conquista della seconda vetta della Terra.
Il 1° agosto Wiessner e Solleder attaccano la parete Nord della Furchetta, la più difficile delle Odle, che risalgono sull’itinerario aperto da Hans Dülfer e Luis Trenker. Senza raggiungere il pulpito dove la cordata del 1914 si è fermata, traversano a destra fino a un sistema di fessure friabili che li conduce in vetta. Le difficoltà sono di quinto superiore e sesto grado.
Dopo la Furchetta, Fritz Wiessner non ha voglia di affrontare altre pareti. Accompagna l’amico a Caprile poi lo saluta per tornare verso il Brennero. Emil Solleder, invece, ha letto che nelle Dolomiti venete, meno battute da austriaci e tedeschi, si alza una parete straordinaria.
“Sapevo che laggiù nel sud si alzava un erto castello di roccia, la Civetta. Non l’avevo mi vista, ma ne avevo spesso udito parlare. Su quella parete – si diceva – non bisogna mettere le mani. Una muraglia smisurata, scariche di pietra terribili, molto ghiaccio. Preuss, Dibona, Innerkofler e una schiera di inglesi con le migliori guide l’hanno tentata invano”. Così inizia il racconto che Solleder dedica alla cima che lo renderà famoso.
Il primo tentativo
A Caprile tempo è brutto, ma l’alpinista bavarese si incammina lo stesso verso il Col di Lana, dove gli eserciti del Regno d’Italia e dell’Austria-Ungheria si sono scontrati con ferocia. Un sentiero sale alla cima, che a causa delle mine del 1917 ha “la forma di un cratere”.
Dopo la salita nella nebbia il sole prende il sopravvento. A ovest e a nord compaiono il ghiacciaio della Marmolada e le rocce del Sella. Ma la sorpresa è dall’altra parte, dove “emerge dalla nebbia una montagna superba” che lascia Emil senza fiato. “E’ uno spettacolo reale? Mai avevo visto nelle Alpi una parete come questa”.
L’indomani, curvo sotto a un pesantissimo zaino, Solleder sale da Alleghe alla capanna Coldai. Qui trova altri due bavaresi, Gustav Lettenbauer e Gaberl. Dopo la diffidenza iniziale, i tre iniziano scoprono delle conoscenze comuni, poi si raccontano i rispettivi progetti.
Di buon’ora, l’indomani, arrivano insieme all’attacco della parete Nord-ovest, sulla verticale della vetta e della placca di ghiaccio del Cristallo. Attaccano da una sella che stacca una torre di roccia gialla e un’altra di dolomia più scura. Mentre estraggono corde e pedule dagli zaini, “un improvviso e pauroso rombo di pietre cadenti” fa capire che la Civetta è pericolosa, e che i racconti arrivati a Solleder non erano campati in aria.
Le scariche di sassi non sono l’unico problema. Dalla torre nera si traversa su roccia sempre più difficile, bagnandosi in una cascata. Segue “una parete straordinariamente esposta” che Lettenbauer supera da capocordata in bello stile. Poi passa in testa Solleder.
Sale una fessura friabile e strapiombante che diventerà il passaggio più fotografato della via, fa salire i compagni in una nicchia, prosegue in un camino bagnato, poi si sposta in parete per aggirare un tetto strapiombante di otto metri. Fin qui gli strapiombi hanno protetto gli alpinisti dai sassi, ora si esce allo scoperto e il pericolo aumenta. Ma nessuno propone di scendere.
Emil Solleder prosegue da primo su una parete “assolutamente a piombo e straordinariamente esposta”. Riesce a piantare un chiodo, continua fin dove la roccia diventa impossibile, poi sistema un altro chiodo e piega di nuovo verso destra. Lottando contro l’attrito della corda riesce a tornare nel camino.
Gaberl, affrontando il passaggio da secondo, vola e si ferisce a un piede. La situazione non è grave, e al termine del camino la parete diventa più facile. Le prospettive sembrano buone, e c’è una buona nicchia per il bivacco. Al mattino, però, la pioggia costringe i tre alla discesa. Quando arrivano alle ghiaie il sole torna a splendere beffardo.
Il giorno decisivo
Due giorni più tardi, lasciato Gaberl ad Alleghe, Solleder e Lettenbauer partono a notte fonda, raggiungono all’alba l’attacco, proseguono superando la cascata, il traverso e il camino che li avevano impegnati nel primo tentativo.
Oltre il terrazzino del bivacco, continuano per duecentocinquanta metri su dei lastroni inclinati. È un tratto non troppo difficile, ma anche “la parte più pericolosa della salita, a causa della caduta dei sassi che la spazza ininterrottamente”. Segue un momento di incertezza sulla via da seguire, poi una fessura grigia consente di ripartire verso l’alto, dove una parete gialla sembra sbarrare il cammino.
Dopo una traversata a sinistra, i bavaresi decidono che l’unica via possibile è a destra, per una fessura grigia che sembra al riparo dai sassi. Per raggiungerla occorre aggirare con un pendolo uno strapiombo crollante, poi scavalcare “uno spigolo paurosamente malfermo”.
Tre lunghi tiri di corda e uno strapiombo portano a un pulpito triangolare. Un passaggio in artificiale conduce alla gola che incide la parte alta della parete, ma la Civetta ha ancora qualche sorpresa in serbo. Sotto alle pietre che precipitano per la gola i due devono superare un’altra gelida cascata, oltre la quale una cengia offre una meritata sosta al sole.
Più avanti, dopo una traversata a sinistra, Solleder deve cambiare le sue Kletterschuhe, le pedule distrutte dall’interminabile arrampicata con un nuovo paio di proprietà di Lettenbauer, che però gli stanno troppo grandi. Seguono una nicchia, una fessurina, un ultimo piccolo strapiombo, mentre alle spalle la Marmolada diventa sempre meno imponente.
Alla fine, spossati, i due proseguono al buio. “Improvvisamente una cornacchia frullò poco sopra di noi, e un vento freddo ci diede l’annuncio della cima prossima. La parete della Civetta era nostra”. Nella notte stellata i due tedeschi si stringono la mano sulla cima, poi preparano un bivacco qualche metro più in basso. Alle due, quando la luna piena sbuca finalmente dalle nebbie, iniziano la loro discesa verso il fondovalle e la fama.
Un anno e un mese più tardi, il 6 settembre 1926, Emil Solleder compie insieme a Franz Kummer un’altra grande impresa sulla parete Est del Sass Maor, nelle Pale di San Martino. Una muraglia più solida, più assolata, altrettanto difficile di quella percorsa con Lettembauer.
È la via sulla Civetta, però, a farlo entrare nella storia. Lunghissima, pericolosa e difficile, viene valutata come un’impresa superiore a tutte quelle finora compiute sulle pareti dolomitiche. Per definirne la difficoltà, i fautori di una scala di difficoltà alpinistiche dovranno creare una valutazione tutta nuova. Sesto grado. Due parole che avranno una fondamentale importanza nella storia dell’alpinismo nei successivi cinquant’anni.