L’assalto alla montagna sta per incominciare: ma è questo ciò che vogliamo?
Nei prossimi mesi le Alpi saranno scelte da un numero di turisti ancora maggiore rispetto al passato. Operatori felici, ma non c’è spazio per garantire a tutti quello che la montagna promette
È alle porte la stagione estiva. Avete preso il canotto e l’ombrellone? Avete fatto lo zaino e affilato i ramponi? Bene, allora potete andare all’assalto, come ogni anno, delle nostre amate coste e delle nostre venerate montagne. Sappiate che sarete in buona compagnia: il turismo alpino lo scorso anno (2024) ha registrato 73 milioni di presenze, in crescita del 2,5 per cento rispetto all’anno precedente, in linea con l’aumento del turismo in generale (quasi 460 milioni di presenze nel Bel Paese). Il buon andamento della stagione invernale lascia supporre che anche il 2025 sarà in crescita (si chiama economia di guerra), per cui anche questo agosto aspettatevi un certo viavai in via Roma (Courmayeur) come in corso Italia (Cortina).
È una buona notizia? Dipende. Per gli operatori del settore, albergatori, gestori di funivie, commercianti, sicuramente; per i residenti stabili, che non coincidono necessariamente con i primi, un po’ meno: oggi gran parte delle proprietà appartiene a gruppi internazionali e la ricaduta economica sulle comunità locali si assottiglia, mentre vanno aumentando i disagi dovuti all’overtourism, dal rialzo dei valori immobiliari alla cronica insufficienza dei servizi.
Ma non è di soldi che volevo parlarvi. Volevo parlarvi del canotto, o dei ramponi, cioè dei motivi per cui noi, veri (?) amanti della montagna, scegliamo una vacanza in montagna. Immagino che chi legge queste pagine non sia attratto dallo struscio nelle località vip, quindi saltiamo il capitolo. Andiamo direttamente in quota, dove i danni ambientali (ma anche psicologici) dovuti al sovraffollamento sono più evidenti. Se il nostro obiettivo è conquistare una vista meravigliosa, dovremo sempre confrontarci con l’eccessiva frequentazione: con i problemi di traffico e posteggio della Val Ferret o del Col de Nivolet, con la follia automobilistica della strada delle Tre Cime o dei passi del Sella. La più grande maledizione che potesse cadere sulle Dolomiti è stata la nomina a Patrimonio dell’Unesco: un potente strumento di marketing per aziende del turismo e singoli operatori, che ne abusano a ogni piè sospinto (oggi puoi spendere il nome Unesco persino se fai l’affittacamere a Perarolo), e che ha condotto all’invivibilità dei fondovalle per quelle due o tre settimane di agosto. Folla, rumore, inquinamento acustico e luminoso: una bella cartolina vale tutto questo?
Il problema non è nuovo. Nel parlavano più di cent’anni fa anche Mark Twain e Alphonse Daudet, denunciando come nell’Oberland Bernese, culla del turismo alpino, ci fossero ormai tanti binari di ferro da poterci inciampare, o come ogni aspetto dell’esperienza alpina, per il povero Tartarino sulle Alpi, fosse un fake creato apposta dall’industria turistica.
E oggi, cosa vogliamo allora dalla nostra vacanza? Mi permetto di rispondere a nome di tutti quanti: vogliamo silenzio, aria respirabile, un po’ di solitudine e molta realtà. Tutte cose che nelle nostre città assediate dal traffico e dai monitor governati dall’AI non troviamo più. Vogliamo un luogo sconnesso, senza cloud, dove vedere le stelle non sia un lusso, dove ascoltare il battito dei picchi invece dei clacson sia normale. E aggiungo una cosa che mi renderà impopolare tra i rifugisti: è un vero peccato che oggi, per trovare un letto e un pasto in quota, sia necessario affidarsi alle app di prenotazione. Un vero rifugio deve essere accessibile al viandante dell’ultimo minuto, quello che, fortunato lui, è sconnesso e le app non sa nemmeno cosa sono.
Insomma, il nostro modello turistico, in generale ma soprattutto sulle Alpi, sta mostrando i limiti, la domanda è altissima e l’offerta non è adeguata: come per chi, in cerca di comode infradito, trova solo costosissime Manolo Blahnik. Come cantavano cinquant’anni fa Cochi e Renato, il canotto l’è s’ciupà,dobbiamo cambiare i paradigmi, guardare altrove, magari alla mezza montagna, o alle valli meno cartolinesche ma più vere. Io, per esempio, conosco un posticino… ma non vi dico dov’è.