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Makalu, la terribile parete Ovest

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La prima salita del Makalu, nel 1955, arriva in vetta da nord-est. Nel 1971, un team francese sale dallo scostante pilastro ovest. Nel 1973 i cecoslovacchi aprono un itinerario eccezionale, per difficoltà ed estetica, sulla Sud. Nulla, però, accade sulla parete Ovest: ripida, terrificante, tremenda. Sembra quasi stregata.

Gli alpinisti la ammirano, la desiderano, ma nessuno osa avvicinarla. E’ chiaro che si tratta di uno dei più grandi problemi dell’Himalaya.

L’attacco è a circa 5.800 metri di quota. Una seraccata la attraversa a 6.100 metri e poi di nuovo roccia, con pendenza 35-45 gradi per altri 400 metri. La parete si impenna sempre di più, inizia il misto, la pendenza arriva a 55 gradi fino a 7.400 metri. Qui, un pilasro di roccia che sfiora i 75 gradi di pendenza porta all’uscita sul crinale ovest. Siamo ad 8.000 metri: ne mancano ancora 473 per raggiungere la cima.

Per vedere una spedizione tentare la Ovest del Grande Nero bisogna aspettare il maggio del 1977. E’ un team americano guidato da Jeff Long, che ha tra le sue fila gli alpinisti James H. Willis, Mike Lowe, Lanny Johnson, Richard Collins e Edwin Drummond.

Il tentativo, però, viene tragicamente interrotto a 7.000 metri, proprio sul finire della parete strapiombante e all’inizio del ghiacciaio pensile, dal forte pericolo di valanghe e da una "epidemia" di mal di montagna che coglie più di un’alpinista della spedizione.  

Il secondo tentativo sulla Ovest è di quattro anni dopo. Nel 1981 il polacco Wojtek Kurtyka e l’inglese Alex MacIntyre provano a risolvere il problema, raggiungono solo quota 6.800 metri. Nell’autunno dello stesso anno ritornano, con loro c’è il grande Jerzy Kukuczka. Ma anche stavolta nulla di fatto: la Ovest li respinge e la cima viene scalata da un altro itinerario.

Nel 1982 ci provano gli svizzeri ma anche loro arrivano solo a 7.700. Poi una lunga pausa, fino agli anni novanta, quando la parete viene letteralmente messa sotto assedio. Nel 1991 il lecchese Casimiro Ferrari arriva al cospetto della Ovest e sale un poco più a sinistra dei precedenti tentativi, verso l’occhio di sinistra (ghiacciaio pensile). Dario Spreafico e Tore Panzeri raggiungono i 7050 metri, ma devono ripiegare.

Spreafico e Panzeri non mollano, ci ritornano nel 1993, il capo spedizione ora è Oreste Forno. Salgono lungo la traccia dei precedenti tentativi, raggiungono la sommità del ghiacciaio pensile di destra fino a 7.600 metri, insieme a Leopold Swloschi. Ma sono costretti al ritiro per le brutte condizioni della roccia. Dopo una breve sosta al base ripartono lungo la via dei primi salitori e, in stile alpino, raggiungono la vetta in soli tre giorni.

Nel 1992 ci prova una spedizione inglese, nel 1993 una americana, capitanata da David Lowe, bloccata sempre intorno ai 7.600 metri da pesanti nevicate e scariche di neve. Nel 1996 è la volta dei giapponesi, ma anche loro abbandonano.

La sofferta vittoria arriverà l’anno successivo. E’ il 21 maggio 1997, oltre quarant’anni dopo la prima salita. A farcela sono gli alpinisti russi, che, in fatto di determinazione a volte paiono delle vere e proprie macchine da guerra. La squadra arriva da Yekaterinburg, Russia centrale, ed è capitanata da Sergei Efimov.

Attrezzano 1.300 metri di parete, fino ai 7.500 metri di campo 5: è un pendio di oltre 50 gradi completamente coperto di ghiaccio. E poi tentano la vetta. Passano oltre dieci giorni in parete, tra campi e bivacchi di fortuna. Le ultime due notti in parete vengono trascorse a 8000 e 8150 metri di quota, senza ossigeno.

Salavat Khabibuling muore di sfinimento durante il tentativo di vetta, ma cinque suoi compagni riescono nell’impresa: Alexei Bolotov, Yuri Ermachek, Dmitri Pavlenko, Igor Bugachevski e Nikolai Jiline.

I cinque escono dalla parete sul pilastro ovest e raggiungono la vetta. E’ un’impresa memorabile, ma pagata a caro prezzo. Un’altro alpinista, Igor Bougatshevski, perde la vita: viene ucciso da una scarica di pietre durante la discesa dalla cima. Era stato, peraltro, l’unico del team ad aver usato l’ossigeno, il giorno dopo la cima, per un forte dolore al fegato.

Il Piolet d’or è loro.

 

Sara Sottocornola

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