Storia dell'alpinismo

Sperone Walker alle Grandes Jorasses (1)

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Il 1938 è l’anno che viene ricordato per due imprese alpinistiche eccezionali. La prima, la conquista della nord dell’Eiger, che vi abbiamo raccontato nelle scorse puntate. E la seconda, la soluzione di uno degli ultimi problemi delle Alpi, la direttissima sulla nord delle Grandes Jorasses. La via che porta alla punta Walker, la più alta del gruppo.

Si torna quindi a parlare di Riccardo Cassin, il fabbro di Lecco, e di un’altro dei suoi sigilli posti all’alpinismo italiano. E le vicende della parete del Monte Bianco e di quella dell’Oberland Bernese sono intrecciate a corda doppia.

Obiettivo primario di quell’estate era per Cassin l’immane nord dell’Eiger. E con Gino Esposito e Ugo Tizzoni, nel luglio del 1938, è a Grindelwand. Caso vuole che l’arrivo degli italini coincida con il tentativo di Harrer e compagni.

La cittadina svizzera sta vivendo l’angoscia per la sorte degli alpinisti e Cassin e compagni non possono far altro che aspettare. Fino a che la notizia si diffonde, l’Eiger è ufficialmente espugnato.

Si potrebbe tentare la prima ripetizione ma la parete è in condizioni pessime. Troppa neve fresca e il grande Ragno bianco è spazzato dalle slavine. Sarebbe un’assurdità.

E forse la decisione della direttissima alla punta Walker parte proprio da qui. In qualità di alpinista la notizia della fresca conquista di una delle pareti più ostiche delle Alpi non può che far piacere a Cassin. D’altro canto però la stessa rappresenta uno smacco. Un’occasione perduta proprio ad un passo dal tentativo.

Detto fatto, la sera del 3 agosto Cassin, Tizzoni ed Esposito giungono al rifugio Torino carichi come muli. Il giorno dopo è tempo di ricognizioni. Sotto la poderosa bastionata della nord i tre cercano il punto migliore per l’attacco. Lo spigolo è ancora molto innevato, ma il tempo è splendido e l’indomani lo attaccheranno.

Alle tre del mattino del 4 agosto la partenza. Nel buio, dopo due ore di marcia, i tre sono alla crepaccia terminale. Un balzo e inizia l’avventura.

Subito un colatoio che porta alla base di placche rocciose, lisce e leggermente inclinate. E un avvertimento. Una scarica di ghiaccio, quasi a dire che la parete è viva, e non ha nessuna intenzione di lasciarsi vincere facilmente.

Ma si va avanti, e le placche si ricoprono di ghiaccio. Qui la sorpresa. Compaiono tracce di scalini recenti anche se sulla parete non si scorge nessuno. E le tracce portano rapidamente sulla roccia, alla base di un diedro.

Roccia buona, sulla quale Cassin si esibisce nel superamento di un tratto strapiomabante. Fino ad un pianerottolo, dove i tre si riuniscono con il naso all’insù. Da qui in poi le difficoltà si presentano estreme. Non si riesce quasi a piantare chiodi, e la salita si fa lenta e faticosa.

Il diedro termina in una fessura, che costringe il capocordata a strisciarvi dentro come un rettile. In pura aderenza, con la parete che butta all’infuori. Un lavoro estenuante con un’unica assicurazione, rappresentata da un chiodo all’inizio del passaggio.

Ma come tutte le cose anche la fessura ha termine su di un gradino particolarmente accogliente, dove i lecchesi possono finalmente riunirsi. Ogni segno di passaggio è scomparso. E l’umore non può che essere ottimo.

I gradini nel ghiaccio dovevano proprio essere quelli del tentativo di Allain e Leininger, pochi giorni prima, respinto dalle scariche di ghiaccio. Nel frattempo, la sosta rappresenta il limite massimo raggiunto da una cordata sulla direttissima.

E ora che la prima grossa difficoltà è superata non resta che concentrarsi sulle successive. Una serie di placche conduce ad una sorta di piccolo anfiteatro di ghiaccio, delimitato da due pareti strapiombanti coperte di vetrato.

Nessuna scelta, una delle due pareti andrà salita, e saranno 10 metri davvero duri. E al termine l’ennesima sorpresa, un pendio di ghiaccio non visibile dal basso, notevolmente inclinato. E’ tempo di calzare i ramponi e scalinare. I colpi di martello fanno volare schegge di ghiaccio ovunque ma l’ostacolo è presto superato.

Fino a che il muro si fa verticale. Muro che ben si presta all’utilizzo dei chiodi semitubolari da ghiaccio fabbricati da Cassin. Progressione difficile ma, dopo un’espostissima traversata, i tre sono di nuovo sulla roccia.

E da li fin su una cengia, alla base di un altissimo diedro. Un occhio all’orologio e la decisione. Questo sarà il posto del primo bivacco. Dopo la prima giornata i lecchesi sono a quota 3.350 metri, 450 metri sopra l’attacco. Su di una parete come questa non può che essere motivo di soddisfazione.

L’umore infatti è alto e pane raffermo, lardo, formaggio, cioccolata, biscotti, zucchero e prigne secche costituiranno la cena. Le battute e le risate dei tre amici il sottofondo e lo spettacolo della parete e del ghiacciaio sottostante che piano piano sprofonda nelle tenebre fanno da cornice ad una salita che sta per entrare, prepotente, in una delle pagine più importanti dell’alpinismo degli anni Trenta.

 
 
Massimiliano Meroni

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