La giustizia francese va in tilt di fronte a Christophe Profit
La sentenza di appello per la rimozione dei fittoni sulla via normale del Monte Bianco finisce con una nuova (ma moderata) condanna. Profit, che è una leggenda dell’alpinismo, non ci sta e ricorre in Cassazione
Non è facile per i Tribunali, a nord e a sud delle Alpi, emettere sentenze in materia di alpinismo. Su una parete di roccia o su una cresta di neve, come quella delle Bosses utilizzata dalla via normale del Monte Bianco, il diritto al rischio liberamente esercitato dagli alpinisti e l’obbligo di rendere più sicuri i percorsi per chi gestisce il territorio (Comuni, Regioni, Club alpini…) ha un valore diverso che su una strada di fondovalle o su un sentiero.
In Italia, anche negli ultimi anni, decine di casi hanno dimostrato quanto sia difficile, per i giudici, assolvere o condannare gli imputati per questo tipo di faccende. Lo dimostra ancora una volta la sentenza emessa giovedì 27 febbraio dalla Corte d’Appello di Chambéry contro Christophe Profit.
La guida alpina di Chamonix, uno dei miti dell’alpinismo mondiale, è stata ritenuta colpevole di furto per aver rimosso nell’estate del 2022 due fittoni di sicurezza dal tratto più ripido della cresta delle Bosses, e per questo è stato denunciato dal battagliero Jean-Marc Peillex, sindaco di St.-Gervais-les-Bains.
L’alpinista ha rivendicato la rimozione dei fittoni, e li ha riconsegnati alla Compagnia delle Guide di St.-Gervais che li aveva installati. Altri due fittoni rimossi da Christophe non sono stati presi in considerazione dal Tribunale perché piantati (e rimossi) in territorio italiano. La sentenza di primo grado, emessa il 5 giugno 2023, ha condannato Profit a una multa di 600 euro.
In appello l’accusa aveva chiesto di alzare l’ammenda a 4000 euro ma il Tribunale si è fermato a 2000 euro, mille dei quali sospesi. Si tratta di una decisione pilatesca, che rivela l’imbarazzo dei giudici in un caso in cui non esiste dolo, il valore degli oggetti “rubati è molto basso, e questi sono stati immediatamente restituiti ai legittimi proprietari.
La rappresentante della Procura, citata qualche settimana fa dal quotidiano Le Dauphiné Libéré aveva affermato che “se questa infrazione sottintende un dibattito securitario o filosofico, sul modo di fare dell’alpinismo, non tocca alla Corte di decidere”. Tradotto in un linguaggio da bar, si legge “per favore, mettetevi d’accordo tra di voi e lasciateci tempo per altre cause”.
A gennaio, sul sito francese AlpiMag, Jocelyn Chavy aveva intitolato il suo pezzo “Christophe Profit in appello, la giustizia sull’orlo di un crepaccio”. La sentenza di ieri dimostra che i giudici – e la colpa non è solo loro, sia chiaro! – quel crepaccio non sono riusciti a saltarlo, anzi ci sono caduti dentro con almeno una gamba.
In tutto questo, però, resta un dubbio. Se il Tribunale non può e non vuole decidere sull’alpinismo e le sue regole, perché Profit è stato portato in Tribunale per due volte, e ci dovrà tornare una terza in Cassazione?
Vale la pena, per capire meglio questa vicenda, ricordare che Profit e il suo avvocato (e compagno di cordata) Laurent Thouvenot attaccano il sindaco Jean-Marc Peillex e i suoi fittoni perché “piantati illegalmente in un sito naturale d’eccezione”, e nel loro atto di citazione si parla di “un sostanziale attacco all’alpinismo, che è inserito nel patrimonio immateriale dell’UNESCO”. Queste, però, sono esattamente le questioni filosofiche in cui i giudici d’Oltralpe non hanno voglia di entrare.
In attesa del terzo (e ultimo) giudizio, vale la pena citare ancora una volta Jocelyn Chauvy. “Non fate errori. Il più grande alpinista francese può essere giudicato come tutti, anche se è un’icona della montagna. Ma Christophe Profit ha già pagato cara questa vicenda quando ha dato le dimissioni dalla Compagnia delle Guide di Chamonix.
“Profit ha rinunciato al suo posto tra i suoi pari per restare ferocemente libero. Che la giustizia se ne ricordi” concludeva il collega francese a gennaio. Il Tribunale di Chambéry, invece, ha scelto di prolungare la vicenda. Oltre all’accanimento terapeutico, esiste (e bisognerebbe evitare) l’accanimento giudiziario.