Meridiani Montagne in edicola con il numero dedicato a Monte Canin e Prealpi Giulie
Il numero 133 della rivista accompagna i lettori alla scoperta della splendida montagna al confine con la Slovenia per poi spingersi verso sud, lungo l’Isonzo o nelle Valli del Natisone. Vette, itinerari, personaggi in un territorio magico ma per molti ancora sconosciuto
Il Monte Canin è il protagonista principale del numero di Meridiani Montagne appena arrivato in edicola Come di consueto, la rivista diretta da Paolo Paci affronta la montagna da tutti i suoi “versanti”. Non solo quelli strettamente geografici, naturalmente. Grazie al contributo di esperti giornalisti ed eccellenti fotografi, vengono raccontati tutti gli aspetti del Gruppo montuoso: in primo piano c’è la storia alpinistica, ma poi si spazia tra, personaggi, rifugi, itinerari (non solo escursionistici), grotte e… sapori. Una vero e proprio viaggio che spazia dalla ciclovia Alpe Adria ai villaggi dimenticati della Val Raccolana, dalle antiche miniere del Predil ai tesori della Val Resia, dalle dorsali del Kolovrat del Matajur tra grandi spettacoli naturali e memorie della Grande Guerra, fino alle grotte che caratterizzano le viscere di queste montagne. Ospite d’onore, se così si può dire, è Ignazio Piussi, a cui è dedicato un ampio articolo che ne racconta la vita tormentata oltre alle grandiosi salite su queste montagne
A introdurre il numero 133 di Meridiani Montagne è l’editoriale del direttore Paolo Paci.
Sole, luce, fulgore… è il Canin!

Julius Kugy diceva del Canin tutto il male possibile. Lo definiva una montagna tetra e malinconica, vette “tutte d’uno stampo, tozze, senza grazia” e “prive di ornamenti architettonici”. Parla della sua acqua abbondante, che però “il suolo roccioso beve fino all’ultima goccia come uno staccio insaziabile, avviandola alle profondità”, e che dunque danno vita e bellezza solo alla valle. Scrive della sua solitudine: “il grido rauco dell’avvoltoio invisibile nel cielo, una pista di camosci sperdentesi lontano sui nevai, sono i soli segni di vita della montagna morta”. Neppure dal punto di vista alpinistico lo salva: “V’era ben poco di importante da fare sulle cime del Canin”. E dunque, si chiedeva, perché era salito 25 o 30 volte alla vetta? “Cos’è dunque che indora il ricordo di questi monti […] fasciati di tristezza e di silenzio?
E che manda una luce incorruttibile e ancora dopo tanti anni, m’empie il cuore di desiderio?” La risposta, Kugy, la trova nel panorama: “È la vista, la vista affascinante verso mezzogiorno. Sole, luce, fulgore!”.
Per una volta, non siamo d’accordo con il grande esploratore triestino. E forse, pensiamo, nemmeno lui era d’accordo con se stesso, altrimenti non sarebbe tornato tante volte su una montagna vituperata, solo per godere sempre dello stesso scenario. Il fatto è che il fascino del Canin è sottile, quasi subdolo. Manca della grandiosità delle alte quote e dei ghiacciai (l’unico che aveva è pressoché scomparso), manca del brivido della verticalità di altre cime delle Giulie. Ma con i suoi profili orizzontali, con la sua sterminata solitudine pietrosa, con i suoi abissi misteriosi, avviluppa il nostro cuore e ci spinge a tornarvi, per tentare di decifrare con i piedi, con le mani, con gli occhi, il suo messaggio arcano. Inoltre, rispetto ai tempi di Kugy, le cose sono un po’ cambiate: ci sono mille possibili attività sulle (e sotto le) cime del Canin. Le vie ferrate, i sentieri della Grande Guerra, le grotte, e perfino l’arrampicata sportiva sugli specchi di solido calcare del Bila Pec. Dunque, non diamo retta al vecchio Julius. Il Canin, con la sua unicità, ci aspetta.
