I miei prossimi due mesi in Patagonia. Intervista a Matteo Della Bordella
L’alpinista di Varese, 40 anni, trascorrerà i prossimi due mesi in Patagonia. A gennaio si dedicherà alla famiglia. A febbraio, meteo permettendo, tornerà sulle grandi pareti con gli altri componenti dell’Eagle Team del CAI
Domenica 29 dicembre una famiglia italiana è decollata dall’aeroporto di Malpensa diretta a Buenos Aires, per poi proseguire verso il “grande Sud” dell’Argentina. Matteo Della Bordella, sua moglie Arianna e i loro figli di uno e cinque anni festeggeranno l’anno nuovo a El Chaltén, la “piccola Chamonix” della Patagonia, ai piedi del Cerro Torre e del Fitzroy.
L’alpinista di Varese, che in passato ha salito per tre volte il Torre, tornerà in Italia a fine febbraio, e il suo sarà un viaggio a due facce. A gennaio, facendo base a El Chaltén, alternerà le sue uscite di allenamento a passeggiate e brevi trekking in famiglia, in uno degli ambienti più affascinanti della Terra.
A febbraio, insieme agli altri nove componenti dell’Eagle Team, la squadra di giovani alpiniste e alpinisti selezionata e finanziata dal CAI, Matteo tornerà per la quattordicesima volta sulle grandi pareti di granito della Patagonia. Gli obiettivi sono ancora segreti, e potrebbero variare con il meteo. Non c’è dubbio, però, che sarà un’altra grande avventura.
Molte famiglie italiane hanno paura di compiere lunghi viaggi con i bambini piccoli. Per te invece passare venti ore tra aerei e aeroporti per ritrovarti in Patagonia è normale. Com’è possibile?
Per me ormai El Chaltén è una seconda casa. Questo è il mio quattordicesimo viaggio in Patagonia, ed è la terza volta che vado laggiù con Arianna e mio figlio. Quest’anno non siamo più tre ma quattro, ma non cambia molto. La Patagonia è un luogo tranquillo e pulito, senza i problemi sanitari o legati alla quota di un viaggio tra le montagne dell’Himalaya o del Karakorum.
Hai citato le grandi montagne dell’Asia, negli ultimi anni hai arrampicato dappertutto o quasi. Cosa ti lega alla Patagonia e a El Chaltén?
In Patagonia ho trovato la mia dimensione. Le montagne sono bellissime e tecnicamente difficili. Per salirle, oltre alla tecnica, servono pazienza e un vero e proprio corteggiamento. Le prime volte, come tanti, ho sbattuto la testa contro i problemi tecnici e quelli legati al maltempo. Ma ho subito capito che quello era ed è ancora il mio posto.
Resterai a El Chaltén per due mesi. Nell’estate australe, da dicembre a marzo, trascorrono lunghi periodi laggiù molti dei migliori alpinisti del mondo. Che clima c’è tra di voi? Condividete idee e problemi o prevale la competizione?
El Chaltén è una città per giovani, tra gli alpinisti c’è un clima di convivialità e di condivisione, gli anglosassoni l’hanno definita un Summer Camp, un campo estivo. La competizione non c’è, o almeno non condiziona i rapporti. Ci sono tante cose ancora da fare, non ti viene certo voglia di portar via le idee degli altri.
Una “città per giovani” è anche un luogo dove si mangia, si beve e si fa tardi…
E’ vero, e si rischia di fare una vita non molto adatta a un alpinista che quando il tempo migliora deve tornare in parete. Ma essere lì con la famiglia mi aiuta a evitare gli eccessi.
C’è qualche alpinista, a parte i Ragni di Lecco e gli altri italiani, con cui hai fatto amicizia negli ultimi anni?
A El Chaltén si incontra molta gente, e gli incontri interessanti sono tantissimi. E’ stato importante conoscere il bavarese Thomas Huber, che è un personaggio straordinario, e che ho conosciuto dopo l’incidente a “Korra” Pesce e a Tomás Aguiló. Poi ci sono gli americani Tommy Caldwell e Alex Honnold, gli sloveni Luka Krajnc e Luka Lindič, le francesi Lise Billon e Fanny Schmutz… Impossibile citarli tutti!
A El Chaltén si incontra tanta gente, e in parete? Non è che sulle vie classiche della Patagonia oggi si rischia di fare la fila?
Magari sulla Via dei Ragni al Cerro Torre o sulle vie classiche del Fitzroy si può trovare qualche cordata, ma non è una cosa paragonabile alle Alpi.
E’ vero che le previsioni meteo sono diventate più attendibili anche lì?
Sì, ma ci vuole attenzione. Io negli anni ho imparato a leggere e a interpretare i bollettini. A El Chaltén c’è il wifi e si può leggere tutto, quando si va a scalare no. Io mi faccio spedire da un amico un riassunto delle previsioni meteo sul mio inReach.
Prima hai detto che in Patagonia c’è ancora molto da fare. Puoi spiegare meglio?
Ribadisco che le vie nuove possibili sono molte, e anche sul Cerro Torre o sulla Torre Egger si possono trovare delle linee nuove. Certo, poi bisogna essere in grado di salirle, e bisogna mettersi in gioco. Ho il massimo rispetto per “Rolo” Garibotti, Ermanno Salvaterra e le loro salite di qualche decennio fa. Il punto di riferimento è ancora quello.
Siamo arrivati alla seconda parte del tuo viaggio. A febbraio, finita la vacanza in famiglia, arrampicherai con gli altri nove alpinisti e alpiniste del progetto Eagle Team del CAI. Tutti hanno salito molte grandi vie delle Alpi. Qual è la differenza tra lo Sperone Walker o la Nord-est del Badile e le grandi pareti della Patagonia?
Le vie del Torre e delle altre cime patagoniche sono più difficili, più grandi, più remote delle grandi vie alpine. Non ci sono bivacchi fissi, e c’è sempre l’incognita del meteo, il margine di sicurezza è minore, bisogna imparare a gestire le situazioni. L’alpinismo in Patagonia è una via di mezzo tra le Alpi e le catene più selvagge della Terra come l’Himalaya e la Groenlandia.
Mi puoi dire qualcosa degli obiettivi che tenterete a febbraio? Oppure preferisci non svelarli?
Ci siamo divisi in tre cordate, abbiamo discusso a lungo dei possibili obiettivi, posso dirti che qualcuno ha in mente le ripetizioni delle grandi classiche, mentre altri vorrebbero tentare delle vie nuove.
Quale sarà la composizione delle cordate?
Marco Cordin e Giacomo Meliffi avranno come coach Massimo Faletti. Luca Ducoli e Alessandra Prato si legheranno con il coach Silvia Loreggian. Dario Eynard e Camilla Reggio saranno in cordata con due coach, Luca Schiera e il sottoscritto. Vedremo.