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Dopo 30 anni Livio Bertaina lascia il rifugio Livio Bianco. Mille ricordi e una certezza

Il popolare gestore del rifugio della Valle Gesso, nel Cuneese, cambia vita. E si racconta in una lunga chiacchierata

“Eh sì, andare al Livio Bianco è lunga…”. Questo si sente dire chiunque esprima l’intenzione di salire su per il Vallone della Meris, fino ai 1900 metri del lago Sottano della Sella su cui si affaccia il rifugio. Non sono più di due ore e mezza-tre di cammino da Sant’Anna di Valdieri, in Valle Gesso  (CN), ma la vulgata ha un suo fondo di verità, soprattutto sulla percezione del sentiero, che sembra non finire mai, con il rifugio che non vedi finché non ci arrivi proprio sotto. Io l’ho percorso la prima volta che non avevo ancora sei anni e l’ultima il settembre scorso, con il gruppo di Mountain Wilderness, in una delle escursioni dell’iniziativa dedicata ai “Sentieri Partigiani”; ma nelle tante altre volte non è mai svanita quella sensazione di partire per una lenta marcia di avvicinamento che richiede un tempo tutto suo, scandito dal cambio di scenari naturali. Subito sopra il paese il sentiero parte ripido e, dopo poche curve, si addentra in un bosco di faggi e castagni; intanto sulla sinistra scroscia sonoro il Rio Meris. Poi, fuori dal bosco e oltre due piccoli agglomerati di baite d’alpeggio, che da queste parti si chiamano “tetti”, parte il lungo pianoro del Gias del Prato, che aggira Punta Meris dal pietroso versante meridionale. Lentamente si guadagna quota fino a un nuovo lungo ripiano, dove resistono vestigia sabaude, le ex Case Reali del Chiot. In lontananza, il sentiero scompare tra le rocce, ma una volta giunti laggiù manca davvero poco, qualche tornante, il ponticello che scavalca la cascata ed ecco il lago. Ancora una manciata di minuti e il rifugio finalmente appare.

Livio Bertaina, una vita ai piedi del Monte Matto

È incredibile a dirsi, eppure con Livio Bertaina, il gestore che ha appena concluso una stagione professionale lunga quasi tre decenni, tutti dedicati al rifugio Livio Bianco, ci incontriamo in pianura, là dove a raggiera partono le valli cuneesi più occidentali, tra cui proprio la Valle Gesso. Non è semplice condensare un lungo tratto di vita in una chiacchierata davanti a un caffè e a un croissant. E io un po’ mi sono intimidita per il profluvio di ricordi, ringraziamenti, attestati di stima, esperienze condivise, nonché veri e propri pellegrinaggi di saluto, che da quando si è diffusa la notizia dell’addio di Livio si susseguono ininterrotti sul profilo fb degli amici del rifugio. 

Andando indietro ai suoi ricordi, mi racconta che il Livio Bianco fu il primo rifugio in cui dormì, a 12 anni. Poi la passione dell’alpinismo lo portò anche a fare un primo tentativo come gestore nel 1979 al Soria-Ellena, «ma ero troppo giovane, ho dovuto aspettare qualche anno e imparare un mestiere; intanto ero entrato nel Soccorso Alpino. Al Livio Bianco sono poi approdato nel 1995, e fu un momento di passaggio». Passaggio di consegne?, gli chiedo. «Non solo. Al tempo c’era soltanto un custode, il mitico Tino Piacenza, che seguiva anche altri rifugi e bivacchi. Chi voleva salire prendeva le chiavi e doveva essere autonomo in tutto, a partire dalla cucina. Così c’erano gli habitué, soprattutto i pescatori, che si consideravano padroni a casa propria, e quando sono arrivato io a dirgli cosa fare e cosa non fare, e a mettere delle regole, non erano per niente contenti». 

30 anni di aneddoti e incontri

Immagino non sia stato facile creare un flusso di clienti. «Inizialmente salivano in pochi, solo i liguri. Ci sono voluti 3-4 anni perché il rifugio iniziasse a girare. C’è da dire che il parco di cui fa parte la valle non era ancora l’attuale Parco delle Alpi Marittime, ma il suo progenitore, il Parco dell’Argentera, e ancora non era iniziata una vera promozione del territorio. Quando questo è avvenuto, a cavallo del millennio, sono arrivati gli stranieri. Per primi i francesi transfrontalieri, poi i danesi spinti da un tour operator,  i tedeschi, gli olandesi, i canadesi. Ora i pernottamenti si sono attestati su una media di 1500-2000 a stagione». Un traguardo niente male.
E con il Covid cos’è accaduto? «È accaduto che sono spuntati i “fenomeni”, come li chiamo io. Quelli che possono metterci fino a 5 ore per salire, che ti chiedono l’anguria o il pomodoro e mozzarella, e che pretendono di far dormire il cane in camerata anziché nel locale apposito».
Il Livio Bianco è in effetti un rifugio come da tradizione, dove non c’è wifi, il telefono prende solo in un punto all’esterno, non si servono gelati e di musica neanche a parlarne, come pare invece accada altrove in zona. «Il rifugio è un presidio in quota e come tale dev’essere mantenuto» precisa Livio.

Ora però lo stuzzico perché mi racconti qualche aneddoto; in trent’anni chissà quante avventure speciali ha vissuto. «Inizio dalla più bella. Quando mia figlia mi chiese di salire sul Matto. Si era in piena stagione, così dovetti organizzarmi e in un bel mattino d’estate, prima dell’alba, partimmo io, lei e il mio futuro genero. La gita era filata via tranquilla e, una volta in cima, lei mi guardò e mi disse: papà, ci sposiamo. Per me è stata una gioia grandissima!». E per contro, una disavventura? «Quella che più mi ha messo alla prova è stata una giornata vissuta con un gruppo di scialpinisti francesi, tutti bravi. La data la ricordo bene, era il 26 febbraio, attorno al ’99-2000, e mi ero lasciato convincere ad aprire il rifugio malgrado la meteo instabile, con in più il telefono guasto. Loro avevano programmato una traversata, ma nella notte erano caduti 2 metri di neve e dunque la mattina non si poté far altro che scendere a valle. Loro partirono alle 7 e mezza, io mezz’ora dopo. Non immaginavamo il calvario che ci aspettava: valanghe che cadevano dai pendii, neve alla cintola, tormenta furiosa che ci sferzava e ci impediva di parlarci, un tentativo di accorciare la strada finito nel Rio Meris… insomma, approdammo a Sant’Anna alle 7 e mezza di sera! E meno male che era un gruppo che andava».

C’è anche da dire di un incontro speciale. «Sì, con Margit Petzold. Lei e il marito Dieter vennero inizialmente per le ricerche di lui sulla Saxifraga Florulenta; nel 2000 furono i primi tedeschi ad arrivare e fino al 2013 tornarono ogni anno. Tra noi nacque una vera amicizia. Finché, di colpo, scomparvero. Compresi che Dieter era mancato quando ricevetti un ricordino. Poi, a un “mi piace” della moglie sulla pagina fb del rifugio, decido di scriverle: Margit devi tornare! Lei ha preso il treno, ha prenotato il mulo per farsi portare i bagagli e quest’estate è stata sei giorni al rifugio. Davvero una grande emozione».

Un rifugio deve essere un rifugio. Non altro”

Ora che per te inizia una nuova vita, che farai? Non ti mancherà la montagna? «Anzi, finalmente potrò andarci quando ci vanno tutti! Sono ancora in forze, ci sono tanti viaggi che vorrei fare… e poi ho cinque nipoti».

Che messaggio lasci a chi verrà? «Che la gestione di un rifugio è un lavoro che si può fare solo con grande passione, che il rifugista deve conoscere bene la montagna e sapersi destreggiare anche un po’ col soccorso, che il rifugio deve rimanere un presidio in quota e non trasformarsi in qualcos’altro, in un ristorante o in un albergo a 5 stelle».

Lunga vita allo spirito del Livio Bianco, dunque, nel ricordo sempre vivo dell’uomo a cui è intitolato, che fu partigiano con Duccio Galimberti nel primo nucleo armato della Resistenza, la banda “Italia Libera”, ma anche forte alpinista, caduto sul Gelas nella sua amata Valle Gesso.

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