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Guglielmo Delvecchio, il fortissimo e silenzioso scalatore triestino erede di Emilio Comici

Un numero della rivista Alpi Giulie, curato da Flavio Ghio, ricorda un protagonista quasi sconosciuto dell’alpinismo a metà del secolo scorso tra Alpi Giulie e Dolomiti. Un modo, il suo, di vivere la montagna e la roccia ben diverso dalla retorica del fascismo

Ultimi giorni d’agosto del 1945, parete Nord della Cima Grande di Lavaredo. Una cordata di alpinisti triestini viene sorpresa dal buio poco sotto la vetta. “In un’atmosfera fresca ma non gelida, limpidissima e inargentata dalla luna, sotto un cielo inverosimilmente stellato, trascorsi la mia più bella notte in montagna” scriverà uno di loro. 

L’alpinista si chiama Guglielmo Delvecchio, con l’amico Mario Mauri ha scelto di ripetere una delle vie-capolavoro tracciate da un altro triestino, Emilio Comici, sulla dolomia delle Tre Cime. Nei giorni successivi la cordata ripeterà lo Spigolo Giallo della Cima Piccola, l’altra grande via di Comici sul massiccio. 

Guglielmo Delvecchio, nato a Trieste nel 1921 e morto a Pordenone nel 2009, è stato un alpinista di classe, con all’attivo molte vie nuove e ripetizioni importanti. Per molti anni, però, è rimasto un alpinista sconosciuto. “Di lui non si sapeva quasi nulla, anche su Internet si trovavano poche righe e una minuscola foto” spiega Flavio Ghio, alpinista e storico della montagna triestina. 

“All’inizio di quest’anno, è cambiato tutto” prosegue Ghio. “Gli eredi di Delvecchio hanno svuotato la sua casa, hanno trovato fotografie, relazioni e documenti, e hanno capito che quel materiale non aveva solo un valore privato. Si sono presentati alla Società Alpina delle Giulie, una delle due sezioni CAI di Trieste, e hanno colmato quel vuoto”. 

Il risultato della donazione della famiglia e del lavoro di Flavio Ghio è un numero della rivista sezionale Alpi Giulie dedicato a Delvecchio, che emoziona il lettore con immagini, documenti, riproduzioni di relazioni scritte a macchina e appunti e lettere scritte a mano. 

Nelle immagini in bianco e nero vediamo Delvecchio e i suoi amici scalare sulle storiche falesie della Val Rosandra e della Napoleonica, scendere nelle grotte del Carso, affrontare grandi vette dolomitiche come il Dito di Dio, la Cima Piccola e la Punta di Frida. Alcuni di questi itinerari sono vicini a quelli tracciati dieci o vent’anni prima da Comici. “Non è stata una competizione ma un invito a riscoprire il maestro arrampicando. Delvecchio era un razionale, per tutta la vita si è occupato di amministrazione. Il suo tono concreto permette di conoscere Emilio Comici meglio del romanticismo di Severino Casara”, spiega ancora Flavio Ghio. 

Il numero monografico di Alpi Giulie, che può essere scaricato in formato pdf al link www.caisag.ts.it, e che è stato presentato lunedì 11 novembre nella sede di quella che a Trieste è semplicemente “l’Alpina”, s’intitola Guglielmo Delvecchio, l’eroe pallido. Un “pallore” non fisico, ma che sottolinea come, di Delvecchio, gli alpinisti hanno sempre saputo molto poco.          

Sfogliando i documenti e le immagini pubblicati da Ghio su Alpi Giulie, si scopre che il giovane alpinista triestino ha iniziato nella seconda metà degli anni Trenta con la speleologia, scendendo con i mezzi del tempo in decine di cavità e di abissi del Carso. E’ seguita l’arrampicata in falesia, con il gruppo dei Bruti.  

“Delvecchio inizia ripetendo le vie di Comici in Val Rosandra, poi ne apre di nuove, come i Falchi, il Naso e la Placca del Vecio. Poi si sposta sulla Napoleonica, dove diventa quello che è stato Comici per la Val Rosandra” scrive Flavio Ghio. “Possiamo dirlo non in base ad aneddoti incerti ma perché Tullio Piemontese, con la guida Arrampicare a Trieste, ha impedito che questo inizio, come altri, cadesse nell’oblio”.

Gli anni bui delle leggi razziali

Poi, come per tanti giovani della sua generazione, i sogni di avventura del giovane Guglielmo, ebreo per parte di madre, s’interrompono per colpa del fascismo e del nazismo. Dopo l’approvazione delle “leggi razziali” di Mussolini viene espulso dal Liceo Oberdan e poi dal CAI. 

“Fui avvicinato dal segretario dell’Alpina. Mi disse molto gentilmente che per motivi razziali non potevo più frequentare la sede”, racconta Guglielmo in uno dei documenti pubblicati. “Sono stato perseguitato io, e sono stati perseguitati, più crudelmente perché hanno avuto minor fortuna di me, gli zii che avevo: zio, zia e mia cugina”, continua. 

“Una è riuscita a filare in quanto faceva parte di una compagnia teatrale, e cambiando nome si è trasferita a Roma e l’ha fatta franca. Questi zii invece sono stati deportati ad Auschwitz. Lo zio probabilmente è morto per strada, la zia e mia cugina sono state sacrificate sul posto”. 

Nuovi momenti di paura arrivano nel 1943, quando Guglielmo sta arrampicando in Lavaredo, e arriva la notizia dell’armistizio e dell’invasione tedesca dell’Italia. Poi Delvecchio lavora in una ditta di trasporti, e la fa franca anche se le SS si presentano un paio di volte a casa sua. Segue un altro momento drammatico, risolto con freddezza dalla madre. “Mi è arrivata la cartolina, l’invito a presentarmi per lavorare nell’organizzazione Todt, lavoro civile. E lì è stato un gran dilemma. Mi presento o non mi presento? Filo definitivamente? Vado coi partigiani? Cosa faccio? Lì c’è stato l’atto eroico di mia madre, che ha avuto un bel coraggio”, scrive Delvecchio.  “Ha chiesto appuntamento al Gauleiter della piazza di Trieste, si chiamava Reiner. Si è presentata, e ha spiegato la mia situazione di figlio di razza mista, non ebreo, mai stato ebreo, anzi ora cattolico. Cosa deve fare? Questo qui osservava mia madre e poi ha detto: si presenti e non dica niente della sua situazione. Io mi sono presentato e mi è andata bene”.

Le imprese nel Dopoguerra

Nel dopoguerra a Trieste la situazione resta tesa, ma Guglielmo Delvecchio vive i suoi anni migliori da alpinista. “Comici non c’era più, la retorica del fascismo era finita, l’attacco alle pareti diventa una cosa privata e non in nome della nazione. L’unico modo per conservare la memoria di Emilio era il racconto antieroico di Delvecchio” spiega ancora Flavio Ghio. 

In quegli anni i giornali si disinteressano dell’alpinismo, che il fascismo aveva indicato come “una scuola per educare gli italiani all’agone e alla lotta”. La stagione delle ripetizioni inizia con la Nord della Grande e lo Spigolo Giallo, e prosegue con la Croda dei Toni e il Salame del Sassolungo, che Comici aveva dedicato al gerarca fascista Italo Balbo. Poi Delvecchio sceglie la “porta stretta”, e apre le sue “vie parallele”. 

“E’ giusto che, non per amarcord sentimentale ma per dovere storico, venga sottolineata l’essenziale importanza della sua esplorazione alpinistica” scrive di Delvecchio un triestino famoso come Spiro Dalla Porta Xydias. “La dovuta risonanza che finora non gli è stata conferita perché alle sue spalle, allora, non c’era una sezione nota e affermata, come quelle di Milano, Torino, Trento, Cortina o Lecco”. 

In quegli anni Delvecchio compie con Mario Mauri una durissima prima invernale (1947) nella Gola Nord-est dello Jôf Fuart, sulle Alpi Giulie, luogo di valanghe e tragedie durante la Grande Guerra, e una visita-lampo al Gran Sasso (1948), dove con Pietro Zaccaria apre l’elegante Via dei Triestini al Campanile Livia. 

Qualche anno dopo, apprezza le vie dell’“eroe pallido” un altro grande scalatore triestino come Enzo Cozzolino. Nel dopoguerra, prima di parlare della sua via “parallela” allo Spigolo Giallo, Guglielmo Delvecchio descrive in una lettera quello che per lui è lo stato di grazia. 

Un divertimento che per intensità raggiunge spesso l’ebbrezza; una piacevolissima commozione che tu non puoi nemmeno immaginare; una tranquilla gioia che pervade armoniosamente l’animo nostro e di cui tu, che consideri l’alpinismo uno sport”. Sensazioni forti e private, agli antipodi della caccia della gloria cara a Hitler e a Mussolini. Sensazioni di pace, intonate a un’Europa appena uscita dagli anni dell’orrore e delle stragi.   

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