La sovrana, il nobile, il museo. Storia e natura si intrecciano piedi del Monte Rosa
Il Museo della Fauna Alpina di Gressoney lega tra loro la regina Margherita, il barone Luigi Beck Peccoz, le tradizioni bavaresi e le esplorazioni sul Monte Rosa. Storie da leggere, e da vedere, tutte insieme
A Gressoney Saint Jean c’è un museo sorprendente. È dedicato alla fauna alpina e presenta una collezione impressionante di circa 2400 trofei. Sono palchi di cervi e caprioli, corna di stambecchi e camosci, ma c’è anche qualche ungulato impagliato, e numerose curiosità che potevano piacere a un collezionista e cacciatore dell’Ottocento, come il muso di un orso, i denti di un facocero, un capriolo siberiano, uno stambecco himalayano. C’è anche un’interessante collezione di armi. Agli occhi di un appassionato di montagna di oggi, animalista e amante della natura, questo posto può sembrare “un cimitero di cervi”, una polverosa istituzione di sapore ottocentesco. Ma non è così. Per capire cosa rappresenta e guardare sotto la giusta luce il Museo regionale della fauna alpina Beck-Peccoz di Gressoney, occorre conoscere la sua storia, indissolubilmente legata a un personaggio celebre nella Valle del Lys: il barone Luigi Beck Peccoz (1841-1894). Il ritratto firmato da Demetrio Cosola, conservato a Palazzo Madama a Torino, ci mostra un uomo imponente, con barba e baffi all’insù secondo il gusto dell’epoca, elegante nel suo look da camminata, con le Alpi sullo sfondo. Le montagne della valle, e il Monte Rosa in particolare, erano nel suo cuore di alpinista provetto. E in quello stesso cuore per sei anni della sua vita, ci fu un’amicizia speciale: quella con la regina Margherita (1851-1926), moglie del re d’Italia Umberto I.
Per comprendere la genesi di questo museo, bisogna ricollegarsi alla storia di Gressoney e della valle. A partire dal XII secolo i Walser, popolazione di lingua germanica, colonizzano la parte più alta delle valli intorno al Monte Rosa. Gressoney e Issime sono luoghi d’insediamento. «Parlando il tedesco, erano avvantaggiati negli scambi con il nord Europa», spiega Nadia Guindani, curatrice del Museo regionale della fauna alpina Beck-Peccoz. «Dapprima furono mercanti, poi abili commercianti che andavano in territorio svizzero, austriaco, tedesco. Erano i capifamiglia a partire, assentandosi per due o tre mesi d’estate, lasciando alle mogli la gestione di bambini e anziani, dei campi e del bestiame. Il lavoro era tanto, e le donne spesso si avvalevano di lavoranti che venivano dalla Val d’Ayas». Anche i Beck Peccoz erano una famiglia walser di commercianti, come i loro compaesani. Gli affari e i contatti con il mondo tedesco stimolano un nascente spirito imprenditoriale. Nascono aziende, soprattutto nel tessile, che producono tessuti e confezionano abiti. «Ai primi dell’Ottocento, secondo i documenti reperiti negli archivi, a Gressoney erano attive 89 imprese», puntualizza Guindani. «La famiglia Vincent, per esempio, ha avuto l’appalto per una miniera d’oro, sfruttata fra il Settecento e la metà dell’Ottocento. Vendevano il metallo prezioso a Costanza e nella città tedesca avevano costruito una rete di relazioni. Avevano case, i loro figli studiavano all’estero. Crearono persino una collezione d’arte».
L’idea di avere una collezione gratificava queste famiglie diventate ricche, che fanno costruire anche nella loro valle delle ville sontuose. I Beck Peccoz, favoriti come altri walser dall’essere trilingue – parlavano tedesco, francese e italiano – commerciano soprattutto con la Baviera, in particolare nelle città di Augusta e di Monaco. È proprio qui che questa famiglia con il pallino per la caccia viene a conoscenza della moda bavarese nobiliare di adornare i castelli con collezioni di trofei. Johann Christoph, il nonno di Luigi, inizia la collezione, che poi viene trasmessa al figlio Joseph Anton, che riceve dal re Ludwig di Baviera, amico di Wagner e costruttore del castello fiabesco di Neuschwanstein, il titolo di barone. Successivamente, i Savoia attribuiscono lo stesso titolo alla famiglia Beck Peccoz, con la quale erano in rapporti di amicizia. Non deve pertanto sembrare strano che nel 1888 il quarantasettenne Luigi si presenti a Courmayeur con un mazzo di 100 stelle alpine per salutare la regina, appassionata come lui di montagna. È un nobile, un uomo di bella presenza e galante, non è sposato: offre a Margherita la sua amicizia e soprattutto la invita a scoprire Gressoney, mettendole a disposizione sua casa. «Margherita era figlia di Elisabetta di Sassonia e parlava tedesco», commenta Guindani. «Luigi aveva frequentato l’Accademia militare in Baviera e faceva parte dell’entourage nobile della regione». Evidentemente, la sovrana alpinista coglie in quest’uomo un’affinità culturale e degli interessi comuni. Dal 1889, la regina Margherita trascorre le vacanze a Gressoney, ospite della villa di famiglia di Beck Peccoz, mentre il barone da vero gentiluomo si trasferisce in un’altra delle varie residenze della famiglia. Era una questione di rispetto e i due amici non volevano pettegolezzi.
Alcuni storici sostengono che nei sei anni di frequentazione fra Margherita e Luigi ci fosse più di un’amicizia. L’infelice regina, sposata a un primo cugino, Umberto, che non la amava e che aveva un’amante ufficiale dalla quale aveva persino avuto un figlio, a Gressoney aveva trovato la felicità. Sarà la prima donna a scalare il Monte Rosa: nel 1893, quando giunge sulla Punta Gnifetti, a quota 4554 m si sta costruendo una capanna, che sarà a lei dedicata. Le imprese di Margherita e Luigi, però, non sono mai romantiche fughe: la coppia è sempre accompagnata da guide e da altre persone del loro ambiente. La salute del barone, però, si sta deteriorando. Nell’agosto 1894 Margherita vuole tornare sul Rosa per poi scendere a Zermatt. Beck Peccoz non sta bene, ma l’accompagna ugualmente. Il secondo giorno, però, sarà stroncato da un attacco di cuore. Margherita perde così un amico fidato, ma non la passione per Gressoney, dove continuerà a recarsi tutte le estati, anche dopo essere rimasta vedova nel 1900, facendo costruire una casa per sé: Castel Savoia, inaugurato nel 1904. Fu amore quello fra Margherita e Luigi? Probabilmente non lo sapremo mai con certezza. «Anche in alcune lettere trovate di recente, il tono è molto formale, ma mai intimo», commenta Guindani. «Sicuramente la regina si fidava di lui, c’era una forte amicizia».
La collezione di trofei trasferita dalla Baviera a Gressoney
Nel suo testamento, Luigi aveva disposto che la collezione di trofei che suo padre e lui stesso avevano contribuito nel tempo ad ampliare fosse spostata da Augusta, dove era conservata, a Gressoney. E aveva previsto anche un lascito per far costruire un edificio per ospitarla. È l’odierna sede del museo, in località Predeloasch. Quanto ai palchi, il museo non nasce da una carneficina. «Circa l’80 per cento dei palchi dei cervidi del museo presentano malformazioni, di origine genetica o legata a malnutrizione», spiega Guindani. «La caccia eliminava gli esemplari più deboli, migliorando la specie. Inoltre, cervi e caprioli perdono ogni anno naturalmente i palchi, che poi ricrescono. La collezione include anche palchi trovati, non frutto di uccisione dell’animale». Inoltre, alcuni altri arrivano dall’estero. Insomma, Luigi Beck Peccoz non può essere accusato di aver sterminato cervi e caprioli della valle. «Al contrario: aveva una riserva di caccia nel vallone di Saint-Marcel, dove i camosci scarseggiavano. Lui favorì il ripopolamento, lasciando che si riproducessero», aggiunge Guindani. Perché questa collezione è straordinaria e unica in Europa? «Innanzitutto, per la sua durata: il primo trofeo è del 1480, gli ultimi di fine Ottocento. Poi, per la provenienza degli oggetti: non solo Europa, ma anche Asia, Nord America, Africa. È anche una testimonianza del gusto mitteleuropeo dell’epoca, mutuato dalle case nobiliari in Germania», precisa Guindani. Un pezzo forte? «Un documento di Josef Zumstein di inizio Ottocento. Era un ispettore forestale in Valsesia e nella Valle del Lys, in contatto con i suoi colleghi in tutto l’arco alpino. È stato il primo ad accorgersi del calo degli stambecchi, che subivano una caccia spietata. Zumstein scrive all’Accademia delle Scienze di Torino per denunciare che nella zona del Gran Paradiso rimanevano solo una quarantina di esemplari. La specie era a rischio di estinzione, occorreva intervenire con urgenza imponendo un divieto di caccia». L’appello del forestale non cade nel vuoto. Gli stambecchi del Gran Paradiso si sono salvati, sono cresciuti di numero e sono stati distribuiti in molte zone delle Alpi. Il Museo della Fauna Alpina Beck-Peccoz, acquistato nel 1986 dalla Regione Autonoma Valle d’Aosta, racconta anche questa storia.