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Badrinath e Kedarnath: con i pellegrini tra vette, templi e frane nell’Himalaya indiano

Strade tagliate nella roccia e faticosi sentieri salgono verso i santuari, rispettivamente 3130 e 3583 metri, dove gli indù venerano Vishnu e Shiva. Qui Edmund Hillary ha scoperto l’alpinismo himalayano, qui sono state immerse in un lago parte delle ceneri di Gandhi.

Nel giugno del 1951, un alpinista arrivato dalla Nuova Zelanda risale un’aspra valle dell’Himalaya indiano. Dal villaggio di Joshimath, raggiunto con un lungo trek dalla pianura, percorre “la pista, spesso scavata nella nuda roccia, che sale e scende sulle pareti della gola del fiume Alaknanda”. 

Intorno a lui sono “pellegrini di tutte le età e di tutte le classi sociali, che camminano di buon passo mossi da un grande fervore religioso”. “La maggioranza cammina, altri cavalcano dei pony dal piede sicuro, altri vengono portati su palanchini da quattro portatori, o in una cesta di bambù intrecciato sulla schiena di un portatore solo”. 

Due giorni dopo aver lasciato Joshimath, due settimane dopo la partenza dalla stazione ferroviaria di Ranikhet, la comitiva si affaccia sulla conca di Badrinath, 3130 metri. Scopre “una baraccopoli con i tetti di lamiera”, “dominata dalla cupola dorata di un grande tempio”. I pellegrini, quando la vedono, “urlano, cantano, ribollono di entusiasmo”. 

L’alpinista si chiama Edmund Hillary, e dopo il monsone parteciperà alla prima spedizione esplorativa sul versante nepalese dell’Everest. Il 29 maggio del 1953 toccherà gli 8848 metri della cima insieme allo sherpa Tenzing Norgay, e diventerà famoso nel mondo. In India è arrivato con tre amici (Earle Riddiford, George Lowe, Ed Cotter). Questa è la sua prima esperienza himalayana. 

Nei giorni che seguono, i neozelandesi tentano di salire il Nilkantha, 6507 metri, un’elegante vetta di neve e ghiaccio che domina il santuario. A fermarli è l’arrivo del monsone, che carica la montagna di neve fresca. Il crollo di una gigantesca cornice rischia di costare a tutti la vita.      

A Badrinath, dai tempi di Hillary, sono cambiate molte cose. Qualche baracca c’è ancora, ma prevalgono i palazzi e gli alberghi, e i cantieri per costruirne di nuovi lavorano giorno e notte. Grazie alla corrente elettrica, dal tramonto all’alba, luci degne di una discoteca fanno passare la facciata del tempio dal giallo al rosso, al blu e al fucsia, e dopo un minuto la sequenza riprende. 

E’ rimasto identico il fervore dei pellegrini, che si immergono nell’acqua a 55 gradi della sorgente solforosa del Tapt Kund e poi affrontano un’interminabile fila prima di entrare nel tempio, dove spicca una statua di granito nero della dea Vishnu. Come in passato, il santuario è aperto da aprile ai primi di novembre, poi le immagini sacre e i sacerdoti scendono fino a Joshimath.   

Il cambiamento principale, ovviamente, è la strada che risale la valle, e consente a centinaia di migliaia di pellegrini ogni anno di salire a pregare quassù. E’ un tracciato famoso, indicato da cartelli già dalla capitale New Delhi, che prosegue verso il villaggio di Mana (“la prima città dell’India” recita una scritta) e poi verso il confine con la Cina, chiuso dal lontano 1952. 

Dalla strada per Badrinath, delle strade secondarie e poi dei trekking portano ai piedi del Trisul (7120 metri), del Kamet (7756 metri) e del Nanda Devi (7817 metri), tre magnifiche cime che, all’inizio del Novecento, hanno contribuito a far nascere l’alpinismo himalayano. 

Il viaggio verso il tempio, però, non è affatto banale. La strada taglia dei pendii ripidissimi e rocciosi, e viene interrotta spesso dalle frane. Ruspe e operai lavorano senza sosta, ma in più punti si passa a senso unico alternato, nelle trincee scavate dai bulldozer. Per salire da Rudraprayag a Badrinath, invece delle 5 o 6 ore annunciate, ne servono spesso 8 o 10. 

La storia di Badrinath, come quella degli altri grandi santuari dell’Himalaya, è in buona parte avvolta dal mistero. Sembra che il sito fosse venerato già intorno al 1000 avanti Cristo, e che in passato fosse un tempio buddhista. Nell’alto Medioevo, però, il filosofo e sacerdote Adi Shankara lo ha trasformato in un luogo sacro per gli indù. 

Passato e presente s’intrecciano anche a Kedarnath, 3583 metri, il più alto dei santuari alle sorgenti dei vari rami del Gange. Si sa poco o nulla della storia del tempio, sacro al dio Shiva, che è più compatto ed essenziale di quello di Badrinath, ed è affiancato da un’altra piccola città. Sorge in una conca solitaria, dominata dalla muraglia di roccia e ghiaccio del Kedarnath Peak, 6940 metri, che regge il confronto con il Monte Rosa o il Monte Bianco.

Diversamente che a Badrinath e a Gangotri, però, qui la strada non è ancora arrivata. Dal villaggio di Gaurikund, 1825 metri di quota, si sale a piedi per un viottolo lastricato, lungo 16 chilometri e con 1700 metri di dislivello, che risale l’alta valle del fiume Mandakini. 

Le antiche pietre su cui si cammina, i bastoni dei pellegrini, le tende che offrono tè, acqua e cibo, l’andirivieni di palanchini e portatori al servizio di fedeli anziani e sofferenti regalano immagini impressionanti, che riportano all’Europa medievale. 

Rendono meno piacevole l’esperienza le carovane di pestiferi muli che trasportano altri pellegrini, e che costringono chi preferisce andare a piedi a un’infinita serie di schivate e di zigzag. Dal cielo arriva il rombo degli elicotteri che trasportano i fedeli più ricchi, e che passano ogni pochi minuti. Dal Medioevo ad Apocalypse Now il viaggio è breve.

Una volta raggiunta Kedarnath, però, lo spettacolo resta straordinario. La piazza davanti al santuario, oltre che di fedeli arrivati da ogni parte dell’India, brulica di sadhu (santoni) e pellegrini. Nella preghiera dell’alba, il tempio ha per sfondo le rocce, le cornici di neve e i seracchi illuminati dal sole. Al tramonto l’edificio è all’ombra, e quando la porta del tempio viene aperta, e la statua del dio diventa visibile dalla piazza, l’entusiasmo dei fedeli va alle stelle. 

Non ci sono solo la fede e la gioia, a Kedarnath. Chi sale dalla pianura si rende conto molto più in basso, tra Tilwara e Guptkashi, che la valle del fiumne Mandakini è stata martoriata dalle frane ancora più delle sue vicine. Guardando dal tempio verso l’alto, molto più in basso delle seraccate e delle rocce, si vede la colata di ghiaie del gigantesco smottamento del 16 luglio 2013. 

E’ stata una tragedia spaventosa. I resoconti ufficiali parlano di 300.000 pellegrini bloccati per settimane tra una frana e l’altra, e di circa 6.000 vittime, ma la cifra autentica è probabilmente più alta. Ha fatto le spese dello smottamento anche il Gandhi Sarovar, un lago di montagna ai piedi del Kedarnath Peak che secondo gli indù è stato visitato più volte da Shiva. 

Nelle sue acque, proprio per questo motivo, sono state versate nel 1948 parte delle ceneri del Mahatma, il profeta della non violenza, l’uomo che più di tutti ha fatto per l’indipendenza dell’India e che era stato assassinato a New Delhi. La frana del 2013 ha svuotato e cancellato il bacino, ha devastato gli edifici intorno al santuario e ha cancellato l’ultima parte del viottolo di accesso, che poi è stato riaperto sul lato opposto della valle. 

A salvarsi, grazie a un macigno che ha deviato la forza dell’acqua, è stato solamente il tempio. Oggi le case e gli alberghi sono stati ricostruiti, e un alto muraglione di cemento protegge Kedarnath da nuove alluvioni. Il macigno, considerato miracoloso, viene a sua volta venerato. 

Il segno della frana sui pendii della montagna ricorda che la forza del monsone – con la complicità del cambiamento climatico – è capace di colpire con estrema durezza questi luoghi di natura, di bellezza e di fede.      

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