Verso le sorgenti del Gange, dal santuario di Gangotri fino alla base dello Shivling
La prima tappa del nostro viaggio nell’Himalaya indiano, verso le sorgenti del fiume sacro. Le città ai piedi dell’Himalaya, il santuario di Gangotri, il trekking verso Gaumukh, Tapovan e la base di alcune tra le cime più eleganti della Terra
Il cambiamento climatico sta tirando un brutto scherzo alla dea Ganga e ai fedeli che pregano alle sorgenti del fiume sacro dell’India. Fino a qualche decennio fa, l’acqua usciva dal ghiacciaio a pochi minuti dal campo e dal piccolo ashram di Bhojbasa, 3850 metri di quota, a una giornata di marcia da Gangotri. Poi, con velocità crescente, la colata si è ritirata verso l’alto.
Oggi, per salire da Bhojbasa a Gaumukh, la “bocca della vacca”, dove il fiume esce dalla colata di ghiaccio, sembra indugiare in un laghetto e poi si tuffa nella prima di una lunga serie di rapide, occorrono due ore di cammino. Nell’ultima parte, da luglio, ha complicato il percorso una frana che le piogge del monsone hanno staccato dalla morena sovrastante.
La nuova pista, segnata da piccoli ometti di pietre, costringe a scavalcare colate di ghiaia e macigni non sempre stabili. Ma i pellegrini, nonostante le difficoltà e la quota, continuano ad arrivare numerosi. Molti vengono dalle città dell’India più lontana e più calda come Calcutta (Kolkata), Hyderabad o Bangalore.
Qualcuno è vestito da trekker, altri indossano le vesti arancione dei sadhu, i santoni. Qualcuno, più stoico degli altri, marcia a piedi nudi sul sentiero. Una volta arrivati a Gaumukh, i fedeli si inginocchiano per pregare, e i più coraggiosi si immergono nelle gelide acque del Gange.
Tutti, alla fine del rito, raccolgono in una piccola tanica un po’ d’acqua da riportare fino a casa. Secondo la tradizione, il liquido raccolto qui o a Gangotri è così puro da poter essere conservato per anni, ed essere utilizzato via via nelle cerimonie religiose in famiglia.
Duecentosette anni fa, nel 1817, il capitano britannico J.A. Hodgson, topografo del Survey of India incaricato di mappare questo angolo dell’Himalaya, sostò ammirato davanti alla sorgente di Gaumukh, che all’epoca si trovava qualche chilometro più in basso.
Scrisse di una scena “più che meravigliosa”, del fiume “stretto tra rocce perpendicolari”, della “parete verticale di ghiaccio, sopra alla sorgente, da cui cadevano blocchi di neve e macigni”, spettacoli che si possono ammirare anche oggi. Poi, per rendere onore alla dea Ganga, ordinò al suo trombettiere di suonare.
Gli escursionisti e gli alpinisti di oggi, che siano o meno devoti agli dei dell’India, non si fermano a Gaumukh. Proseguono verso l’alto, scavalcano un’altra pietraia instabile, poi affrontano un ripidissimo sentiero scavato nella parete della morena.
Rampe, pendii sabbiosi, tornanti e qualche passaggio dov’è bene non mettere il piede in fallo portano in altre due ore al pianoro di Tapovan, 4500 metri. Qui la terra ripida e le pietre in bilico lasciano all’improvviso il posto a un magnifico pianoro erboso, interrotto da macigni di granito.
Qua e là ricoveri di pietra, drappi di stoffa arancione e tridenti sacri al dio Shiva indicano i minuscoli ripari dei sadhu, che si salgono a pregare quassù da aprile fino agli ultimi giorni di ottobre. A dominare il paesaggio, però, sono due delle vette più eleganti della Terra.
La prima, che si alza oltre il ghiacciaio di Gangotri, è la bastionata di roccia e ghiaccio dei Bhagirathi. La cima più alta, 6856 metri, offre un’ascensione relativamente semplice, ma il Bhagirathi I, 6660 metri, è più duro. Il Bhagirathi III, 6454 metri, precipita verso ovest con uno spigolo e una parete concava che possono competere con qualunque struttura di granito della Terra, dal Monte Bianco alla Patagonia.
Si affaccia sui prati di Tapovan, in modo più defilato, anche la parete di granito del Meru. Dei contrafforti nascondono altre magnifiche cime come il Thalay Sagar, il Kedarnath Peak e il Satopanth. Incombe sul pianoro, e lascia senza fiato chi osserva, la piramide di ghiaccio e roccia dello Shivling, il “fallo di Shiva”, 6543 metri.
Chris Bonington, uno degli alpinisti più noti di sempre, vi ha tracciato nel 1983 con Jim Fotheringham due vie nuove, in salita e in discesa. E poi ha scritto di “una cima fiabesca”, con pendii “ferocemente ripidi”, capace di offrire all’uomo del Pilone Centrale e della parete Sud-ovest dell’Everest “una delle più belle esperienze di montagna della vita”.
Sui Bhagirathi e sullo Shivling, oltre a Fotheringham e Bonington, hanno lasciato la loro firma campioni come Doug Scott, Thomas Huber, Silvo Karo e gli altoatesini Hans Kammerlander e Christoph Hainz. Eppure, in una stagione, le spedizioni che affrontano queste cime si contano sulle dita di due mani.
Il paragone con l’altrettanto elegante Ama Dablam, in Nepal, dove in questi giorni le agenzie degli Sherpa portano in vetta centinaia di clienti fa impressione. Ma l’Himalaya del Garwhal, forse a causa della mancanza di “ottomila”, resta un segreto ben custodito. Solo dopo la fine delle strade, però.
In realtà, nel tortuoso percorso che sale dalla pianura verso le sorgenti del Gange, il viaggiatore straniero è circondato da un’incredibile folla. Decine di migliaia di indù, dalla primavera all’autunno, salgono verso i santuari di Gangotri, Badrinath, Yamunotri e Kedarnath, e le sorgenti dei corsi d’acqua che confluiscono nel fiume sacro.
E’ un viaggio che inizia da Haridwar, la “porta di Dio”, al confine tra la pianura e le alture boscose dei Siwalik, dove migliaia di persone ogni sera rendono omaggio con canti e lampade votive al sacro Gange. E che prosegue a Rishikesh, ricca di scuole di yoga e di ashram, resa celebre negli anni Sessanta dalla presenza dei Beatles nell’ashram di Maharishi Manesh Yogi, maestro di meditazione trascendentale.
Per chi sale verso Gangotri e lo Shivling, però, la vera porta dell’Himalaya è Uttarkashi, dove ha sede il Nehru Mountaineering Institute, una delle grandi scuole di alpinismo dell’India, e dove dei lunghi ponti sospesi consentono di scavalcare le acque tempestose del Gange.
L’ultimo tratto misura cento chilometri, e sulle Alpi ci vorrebbero un paio d’ore. Qui ne servono almeno sei, e a ogni curva si ammirano l’abilità degli ingegneri indiani, la capacità (caotica e aggressiva, certo) degli autisti di bus, auto e moto, e l’incredibile lavoro della Border Roads Organization, l’ente militare che cura la manutenzione dei percorsi.
Per lunghi tratti, prima e dopo il villaggio di Harsil, la strada è stretta, tortuosa, intagliata in una parete a picco sulle acque del fiume. I guardrail la rendono relativamente sicura, ma le interruzioni dalle frane allungano il percorso all’infinito. Chi arriva qui a luglio e agosto, quando il monsone imperversa sull’India, può restare bloccato per più giorni in attesa che gli operai e i bulldozer riescano a riaprire il percorso.
Negli ultimi dieci chilometri, come per rendere onore agli dei, la strada diventa ampia e comoda, e serpeggia tra cedri deodar e pini fino alla città santa di Gangotri, 3100 metri. Un ultimo tratto a piedi, tra botteghe che vendono cibo, souvenir, immagini sacre e taniche di ogni misura portano al celebre (e in realtà piccolissimo) tempio fondato nell’Ottocento dal generale nepalese Amar Singh Thapa.
Una scala scende al Gange, dove a ogni ora, da una spiaggia di sassi, centinaia di pellegrini si spogliano e si immergono nell’acqua gelida. Mogli e mariti si aiutano a vicenda a bagnarsi, i genitori danno una mano ai bambini, i più giovani aiutano (o portano di peso) gli anziani. Uno spettacolo che emoziona anche il più laico dei cuori.
Mentre una parte dei fedeli si bagna, altri fanno la fila per entrare nel tempio e per rendere omaggio alla dea Ganga. Ma il tempo sta per scadere. Tra pochi giorni, alla fine della festa del Diwali, il santuario di Gangotri – come gli altri di queste montagne – chiuderà per l’inverno.
Il villaggio resterà silenzioso, le immagini delle divinità verranno spostate un migliaio di metri di dislivello più in basso, nel villaggio di Mukhba. L’alta valle ridiventerà viva ad aprile, all’arrivo dei pellegrini (e dei trekker) di primavera.