Cosa sono i prati stabili, nuovo presidio Slow Food?
L’importanza per l’intera filiera alimentare dei campi, anche in alta quota, dove crescono solo poche specie vegetali. Sempre le stesse. La spiegazione dello scienziato Giampiero Lombardi, che evidenzia il ruolo decisivo dei pastori
Prati e pascoli contribuiscono alla rinascita delle terre di montagna e, dove riescono a resistere all’uso agricolo e all’edificazione, anche della pianura. Slow Food ha recentemente decretato la nascita di un nuovo Presidio dedicato proprio ai prati stabili e ai pascoli. Detto così, può suscitare varie domande: che cosa ha di tanto speciale un prato di montagna? E perché mai avrebbe a che fare con il cibo che mangiamo e con la biodiversità?
Abbiamo cercato delle risposte rivolgendoci a uno scienziato che l’ambiente di montagna lo frequenta abitualmente per lavoro. Giampiero Lombardi è docente di Alpicoltura al Dipartimento di Scienze Agrarie dell’Università di Torino. «L’alpicoltura è la scienza che studia tutte le colture delle Alpi», spiega.
Il pascolo è il terreno destinato all’alimentazione degli animali: in montagna, un classico è l’alpeggio, l’attività agropastorale che si svolge fino a 2500 metri, portando mucche, capre o pecore da maggio fino a settembre per alimentarsi con le erbe che trovano sul posto. Che cos’è invece un prato stabile? «È un termine che si usa da molto tempo per definire i prati che hanno una composizione stabile in termini di specie vegetali presenti nel corso del tempo», precisa Lombardi. «Solo sulle Alpi piemontesi, sono presenti 800 specie erbacee, che si combinano fra di loro. In un prato stabile di pregio naturalistico possiamo trovarne da 50 a 100».
Le specie dominanti sono in genere le graminacee. «Un esempio è il trifoglio alpino, che presenta tre foglioline leggermente più appuntite. Intorno ai 2000-2500 m esistono prati con una presenza abbondante di questo trifoglio», commenta Lombardi. Lo accompagnano a volte Nardus Stricta, o nardo cervino, che forma dei cespi, e Carex sempervirens, che cresce bene anche nelle zone secche (ed è parente di Carex oshimensis che mettiamo nei nostri giardini a scopo decorativo). Insieme a queste dominanti possono esserci alcune decine di altre specie. Per esempio, delle leguminose, che hanno un ruolo importante perché arricchiscono il suolo di azoto, cibo fondamentale per i vegetali. Scendendo a quote più basse, troviamo piante con fiori che siamo abituati a riconoscere: i gialli tarassachi, le margherite, gli aster.
Insomma, un prato stabile può essere paragonato a un’insalata mista con una ricchezza sterminata di ingredienti. Ma se in cucina la composizione la decide lo chef, come funziona invece in natura? «I fattori che condizionano la composizione di un prato stabile sono l’altitudine, l’esposizione al sole, la quantità di acqua che arriva alle piante», spiega Lombardi. «E in misura crescente quando si scende conta come l’agricoltore gestisce il prato e come lo usa, cioè se vi fa crescere il foraggio, oppure ci porta gli animali, che esercitano una pressione». Uno degli stereotipi che tutti abbiamo in mente è quelle delle capre voraci, capaci di divorare tutto e sterminare ogni singola fogliolina di un pascolo. Questo succede se le chiudiamo in un terreno recintato, senza muoverle più. «Spetta al pastore calcolare il “carico animale”, cioè stabilire per quanto tempo i suoi animali possono stare su un determinato terreno considerando l’erba che c’è. Questo tempo deve essere limitato. Se vediamo un prato che sembra terra bruciata in un alpeggio, significa che gli animali ci sono stati troppo», puntualizza Lombardi.
Già così viene il sospetto che fare il pastore di montagna non sia poi così bucolico: è un lavoro che richiede accortezza e intelligenza. E anche conoscenza della materia. Un tema importante per la salute del pascolo è la concimazione. Le piante crescono grazie alle sostanze nutritive che incamerano e che vengono poi mangiate dagli animali. Come si può farle tornare nel terreno per ricreare quel mix meraviglioso di specie generato dalla natura? La risposta è semplice: le deiezioni animali nutrono di nuovo la terra e le piante. «Se c’è un buon equilibrio, il prato si riprende e si mantiene uguale». I contadini di una volta lo sapevano bene: il letame è sempre stato una risorsa preziosa per nutrire la terra, in pianura o in montagna. «Anche quando il prato stabile è destinato alla produzione di foraggio, nel momento in cui si tagliano le piante, bisogna metterci il letame, così la vegetazione può ricrescere bene. Se non si fa nulla, un buon prato si impoverisce. In quanto tempo? Dipende dalle condizioni di partenza, perché un po’ di azoto nel terreno può arrivare anche dall’atmosfera».
Il ruolo determinante dei pastori
Il ruolo del pastore e agricoltore che si prende cura dei terreni di montagna è fondamentale. Non solo perché contribuisce a mantenere prati che sono oasi di biodiversità animale e vegetale, attrattive per gli impollinatori. E non solo perché il latte ottenuto da mucche, capre e pecore che si nutrono di queste erbe così variegate consente di avere formaggi con caratteristiche organolettiche e nutrizionali uniche. C’è anche una motivazione legata al cambiamento climatico e all’esigenza di stoccare più anidride carbonica possibile. Anche un prato stabile, infatti, è capace di sottrarre CO2, mettendola nelle radici delle piante, cioè nei primi centimetri di suolo. «Sarebbe sbagliato mettere a confronto un bosco con un prato per dire chi svolge meglio questo compito», commenta Lombardi. «I meccanismi sono diversi: l’albero conserva l’anidride carbonica nel fusto e nelle radici. Se il prato è stabile, la CO2 raggiunge un picco e rimane lì. Quando sopraggiunge un incendio, il bosco brucia e l’anidride carbonica dal legno torna nell’aria. Può prendere fuoco anche un prato ma il fenomeno è più raro. E se è gestito bene come pascolo, i danni sono minimi e il carbonio resta nel terreno». Ciò non significa che non dobbiamo piantare alberi. Un altro vantaggio poco noto del prato stabile riguarda l’erosione del suolo. «Le radici fini delle graminacee unite alle leguminose trattengono molto di più il terreno rispetto agli alberi», aggiunge Lombardi.
Questo patrimonio naturale va però curato. Un prato stabile sfruttato all’estremo e non fertilizzato è difficile da ripristinare. Il mix di specie che erano la sua ricchezza non si rigenera più. «Finiscono per crescere solo arbusti ed erbacee capaci di adattarsi a terreni poveri. Per esempio, Nardus stricta è un oligotrofico, ma gli animali non lo mangiano. Più in basso, il prato impoverito può essere colonizzato da alberi come la betulla, il pioppo tremulo, uniti a felci, rovi, rose spontanee come la canina». Per evitare che questo accada, secondo il professore occorre promuovere una rete di allevatori preparati che sappiano gestire i prati stabili, che sono più sostenibili. Sostenibilità è un’altra parola chiave. Gli allevamenti intensivi forniscono grandi quantitativi di carne sulle nostre tavole, ma hanno interrotto quel circolo virtuoso che legava gli animali allevati all’agricoltura e ai pascoli. «Nella zootecnia oggi il ruolo dei prati stabili è marginale. Gli animali in stalla sono spesso nutriti con grano, soia, mais che vengono da lontano. E il letame che producono non è più associato ai terreni agricoli dell’azienda. Smaltire le eccedenze è un problema», spiega il docente. La soluzione? Diventare tutti vegani è impossibile. Ma rivedere i nostri consumi alimentari sarebbe auspicabile. Pascoli e prati stabili sono lì a ricordarci che un diverso rapporto uomo-natura è possibile.
Slow Food ha lanciato un progetto che coinvolgerà gli allevatori delle pianure, incoraggiandoli a riconvertire i terreni sfruttati dalle monocolture, e gli allevatori delle zone di montagna e collina, riconoscendo io loro prezioso lavoro di conservazione ambientale.