A tu per tu con Catherine Destivelle: “Il lavoro conta più del talento”
“Prepararmi con attenzione e non soffrire, le regole base del mio andare in montagna”. La formidabile climber francese si racconta. E precisa…
È stata la prima donna a vincere un campionato del mondo negli anni in cui l’arrampicata competitiva aveva appena iniziato ad affacciarsi sulla scena. Fu antesignana delle moderne arrampicatrici, capaci di vivere concretamente delle proprie performance, grazie a contratti di sponsorship degni degli sport più blasonati. E poi ancora, divenne prima donna a scalare un 8a+ e, senza soluzione di continuità, a ripetere anche, in solitaria e d’inverno, la parete nord dell’Eiger. Infine, ma non da ultimo, fu anche la prima alpinista in assoluto a ripetere la via Bonatti sulla nord del Cervino, 30 anni dopo la sua storica apertura.
Non esiste un appassionato di montagna incapace di leggere, fra queste righe, il nome di Catherine Destivelle. L’abbiamo incontrata durante il Festival dello Sport che si è svolto nei giorni scorsi a Trento.
Partiamo dalla fine: quel Piolet d’Or alla carriera vinto nel 2020, a coronamento di una vita intera. Com’è stato riceverlo?
«Emozionante. Essere la prima donna cui è stato consegnato questo importante riconoscimento mi ha reso grata, in un mondo, come quello della montagna, prevalentemente maschile. Il che non significa necessariamente maschilista: dai colleghi uomini sono stata sempre accolta bene, con stima e rispetto. Credo che il problema delle donne in ambiente alpinistico e del loro riconoscimento riguardi i processi educativi di ciascuno, così importanti da gestire».
Ha già messo sul fuoco tanti temi. Partirei anche qui dall’ultimo: per la Destivelle che ha portato lustro alla propria disciplina con le tante imprese compiute, che spazio ha oggi l’educazione?
«Uno spazio primario e fondamentale. Non a caso, qualche anno fa, ho fondato la mia casa editrice Les éditions du Mont-Blanc, al fine di trasformare la montagna stessa in uno strumento educativo. Le montagne hanno sempre esercitato un grande fascino sull’uomo ed è straordinario come delle apparentemente semplici formazioni geologiche abbiano inciso sulle paure, i sogni e le aspirazioni degli esseri umani, diventando un riflesso del nostro desiderio di esplorazione e realizzazione. I libri che pubblico cercano di catturare questa essenza, di rivelare storie incredibili di alpinismo e non solo e di condividere la passione inestinguibile che spinge tutti noi, attratti dalle vette. Il mio obiettivo è creare un ponte fra la storia culturale, il patrimonio sportivo e le preoccupazioni ecologiche e scientifiche proprie degli anni che invece stiamo vivendo».
Prima parlava anche del rapporto fra donne e ambiente alpinistico: il team della sua casa editrice è sostanzialmente una cordata di donne.
«Una scelta voluta: ci siamo io, la direttrice commerciale Alexia Paolozzi, l’addetta al web marketing Audrey Bonneux, la designer grafica Elsa Godet, e l’addetta alle spedizioni Marie-Ange Chantelot. Credo sia giusto parlare di una certa sorellanza fra di noi».
Anche fra lei e Lynn Hill c’era questa sorellanza?
«Direi di sì. Per noi allora era tutto nuovo, eravamo entrambe molto brave a dominare un ambiente che fino a quel momento era appannaggio degli uomini e basta. Questo ci rendeva complici, per certi versi, oltre che ovviamente avversarie sul piano più sportivo».
Fu un uomo, nella sua vita, ad averla avvicinata per primo alla montagna.
«Sì: mio padre invitava me e i miei fratelli all’esplorazione, ad avventurarci ovunque. Appena arrivai all’età giusta per capire quello che stavo facendo m’iscrissi al club alpino francese e cominciai a frequentare Fontainebleau, il paradiso europeo del boulder. La strada che da lì mi portò poi alle Alpi e al Verdon fu breve e avvincente, galvanizzata com’ero dai ragazzi più grandi ed esperti con cui amavo andare a scalare».
La diretta americana al Dru in 7 ore è stata forse la sua ripetizione più importante di quel periodo.
«Sì, poi quasi all’improvviso decisi di lasciare l’arrampicata per dedicarmi allo studio con maggiore convinzione. Ero ancora piccola e sognavo di lavorare come fisioterapista. Tornai sulla roccia soltanto nel 1985, quando Robert Nicod mi propose di essere ripresa mentre arrampicavo per il suo film, È pericoloso sporgersi. M’intrigò, accettai la sfida e tornai a focalizzarmi sull’allenamento come quattro anni prima».
Fu grazie al film di Nicod e al 7b+ chiuso in così poco tempo durante le riprese che venne invitata a Bardonecchia per la prima vera competizione di arrampicata sportiva.
«Esatto. E Sportroccia cambiò la mia vita: iniziai ad avere degli sponsor e ad essere conosciuta. Ma non volli abbandonare l’alpinismo, per me sempre e da sempre complementare all’attività sportiva. Fu così che dieci giorni dopo la gara, mentre attraversavo il Mer de Glace, fui travolta da un cornicione di neve e caddi per 30 metri in un crepaccio, procurandomi svariate fratture alla schiena e al bacino».
Questo però non le impedì di ricominciare ad arrampicare, tornando a competere l’anno successivo a Sportroccia dove riuscì a battere proprio Lynn Hill.
«In quel caso, fui scaltra nel leggere bene i regolamenti: il tempo contava molto e sapevo che Lynn era molto in gamba ma un pochino più lenta di me nei movimenti. Veniva cronometrato il tempo totale in cui completavamo la via, al netto del numero massimo di tre cadute consentite. Io caddi una volta e chiusi il tiro al secondo tentativo. Lynn lo fece a vista, ma ci mise più tempo. E così vinsi io».
Il mondo delle competizioni però non la entusiasmava del tutto.
«Inizialmente sì, le trovavo divertenti e stimolanti. A lungo andare però mi resi conto che la pressione diventava troppa ed era un tipo di arrampicata non totalmente in sintonia con quello che ero e che volevo».
Il 1990 la vede sulle Torri del Trango con Jeff Lowe, prima ascesa femminile. Che ricordi ne ha?
«Imparai molto da Jeff, il suo approccio alla montagna era simile al mio. Questo mi permise di crescere in fretta, alpinisticamente parlando, e di sognare in grande, ripetendo poco tempo dopo il Pilastro Bonatti al Dru».
Fu un’impresa che la traghettò poi verso la solitaria invernale sulla nord dell’Eiger, forse davvero il climax della sua attività. Sorprende la sua capacità di differenziarsi – roccia, misto, solo – senza mai perdere un colpo su terreni tanto diversi. Qual era il segreto?
«Due sono le regole che seguivo, forse senza rendermene conto: prepararmi con attenzione e cercare di non soffrire troppo. Se riesci a seguire bene la prima, la seconda viene di conseguenza. Se ti rendi conto che non è così, vuol dire che occorre prepararsi di più. Il lavoro duro conta di più del talento e la passione ti permette di lavorare duramente senza che questo diventi un sacrificio troppo grande per te e per la tua vita».
Ora che siamo tornati all’inizio, al suo Piolet d’Or alla carriera nel 2020 e al suo presente come editrice: quale libro ci consiglierebbe di leggere, che sia capace di descrivere il suo approccio all’alpinismo e i suoi sentimenti verso la montagna?
«Ce ne sono davvero troppi, ma se devo sceglierne uno solo allora è Everest, Cresta Ovest di Thomas Hornbein».